01 Maggio 2012, 08.00
Lettere

La malattia e il potere medico

di Alberto Cartella

Nella disquisizione del dottore in Filosofia Alberto Cartella l'approfondimento attorno al concetto di potere medico esercitato come estensione di un potere politico, partendo dalle considerazioni dei filosofi Deluze, Canghuilem, Foucault

 
Le idee di salute e malattia sono il frutto di una rappresentazione che precede la loro stessa concettualizzazione. Come suggerisce Georges Canguilhem, fisiologia e patologia ricevono tali nozioni da un’esperienza del tutto prescientifica delle stesse: “La patologia, sia essa anatomica o fisiologica, analizza per conoscere meglio, ma essa non può considerarsi patologia, vale a dire studio dei meccanismi della malattia, se non in quanto riceve dalla clinica la nozione di malattia, la cui origine va ricercata nell’esperienza che gli uomini hanno dei loro rapporti d’insieme con l’ambiente”.
 
Lo studio dei fenomeni patologici non è in grado di imporre al suo presunto oggetto di studio, la malattia, alcuna forma di dominio, poiché - sostiene Canguilhem - “non vi è niente nella scienza che prima non sia apparso alla coscienza”. Il sapere medico-biologico deve accettare di non potersi confrontare con un dato oggettivo, ma di avere a che fare con dei malati concreti, soggettivamente definitisi e socialmente definiti tali.
 
Al di sotto del discorso scientifico sulla malattia come negazione della salute vi è dunque l’esperienza fondamentale di una sofferenza, di un mal vivre. La condizione di una salute cagionevole è favorevole, ma questo non vuol dire che attraverso la malattia si sia all’ascolto della propria vita. È il pensiero ad essere legato al prestare ascolto alla vita e non a quello che sta accadendo a se stessi.
 
Prestare ascolto alla vita è completamente un’altra cosa dal pensare alla propria salute, ma una salute cagionevole può agevolare questo tipo di ascolto. I grandi autori come Spinoza in un certo senso hanno visto qualcosa di troppo grande, di così grande che per loro era troppo.
 
Rimane comunque vero che non si può pensare se non si è già in un ambito che eccede le proprie forze, che ci rende fragili. Inoltre, si acquisiscono i diritti di una salute fragile. Per quanto riguarda i medici ne esistono tantissimi di incantevoli e gentili, ma il loro è un tipo di potere o un modo di maneggiare il potere.
 
Abbiamo l’abitudine, almeno nella società europea, di pensare che il potere sia localizzato nelle mani del governo e che si eserciti tramite particolari istituzioni: l’amministrazione locale, la polizia, l’esercito. Esse sono istituzioni che sembrano fatte per trasmettere gli ordini, farli rispettare e punire chi non obbedisce. Ma il potere politico si esercita anche e soprattutto tramite alcune istituzioni che sembrano non aver nulla a che fare con il potere politico, che dovrebbero essere indipendenti e che in realtà non lo sono.
 
La psichiatria, che in apparenza è destinata al bene dell’umanità e alla conoscenza degli psichiatri è essa stessa un modo per imporre un potere politico su un gruppo sociale. L’obiettivo politico, in una società come la nostra, deve essere quello di criticare il ruolo delle istituzioni, apparentemente neutre e indipendenti (come nel caso del potere medico); di criticarle e di attaccarle al punto che la violenza politica che si esercita oscuramente in esse emerga e di conseguenza possa essere combattuta.
 
A volte il medico in quanto medico risulta odioso. È importante però chiarire che non si sta parlando qui del medico in quanto persona, che spesso è incantevole, ma si sta parlando del potere medico e del modo in cui i medici fanno uso del loro potere.  La malattia non è un nemico e non dà il sentimento della morte. Acuisce il sentimento della vita. Non nel senso di coloro che dicono: “Ah quando sarò guarito ricomincerò a vivere”.
 
Le persone che hanno vissuto alla grande sono persone di salute molto fragile. La malattia acuisce una specie di visione della vita. La malattia acuisce la vita in tutta la sua potenza, in tutta la sua bellezza. Questo (anche se non c’è il bisogno di dirlo) non vuol dire che allora le malattie non devono più essere curate (i farmaci servono eccome!). Bisogna sempre cercare di servirsi della malattia, la malattia serve sempre a qualcosa. Bisogna servirsene per essere un po’ più liberi. La libertà non intesa come liberazione da chi ci sta vicino, ma dagli obblighi sociali. Bisogna chiarire, però, che la malattia non è mai fonte di ispirazione.
 
La filosofia, per esempio, non può derivare dalla sofferenza, dalla malattia o dall’angoscia, anche se il tipo di filosofo che ha vissuto alla grande conosce un eccesso di sofferenza. Ma la malattia non può essere concepita come un avvenimento che colpisce dal di fuori un corpo-oggetto o un cervello-oggetto. La malattia è, piuttosto, un punto di vista sulla salute; e la salute un punto di vista sulla malattia.
 
La malattia non è un impulso per il soggetto pensante, ma tanto meno è un oggetto per il pensiero: essa costituisce piuttosto una intersoggettività segreta in seno ad uno stesso individuo. La malattia come valutazione della salute, i momenti di salute come valutazione della malattia: tale è il rovesciamento, lo spostare le prospettive.
 
Malgrado le apparenze, non c’è reciprocità tra i due punti di vista, tra le due valutazioni. Dalla salute alla malattia, dalla malattia alla salute, questa mobilità esiste solo idealmente, è una salute superiore: questo spostamento è il segno della grande salute. La mobilità, quest’arte dello spostamento di cui si è parlato sopra, può essere persa e quindi può smettere di fare, per la salute, della malattia un punto di vista sulla salute, facendo così cadere chi la perde in una condizione di fissità mortifera.
 
Gli spunti per queste considerazioni sono venuti dalla lettura di alcune interviste fatte a due filosofi molto importanti per me in questo momento: Gilles Deleuze (foto 3) e Michel Foucault (foto 4). Mentre Georges Canguilhem (citato all’inizio dell’articolo) è un epistemologo francese morto nel ’95.


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