Caro direttore, ti mando un pezzo di qualche anno fa, apparso su "La Civetta". A rileggerlo ho riscoperto, qui e lŕ, riflessioni che ritengo ancora
validissime...
Prediligo è un verbo. Senza ombra di dubbio.
Inusuale, ricercato. Ma un verbo.
Per Marcello era diventato un’angustia. Uno di quei tormenti sottili che si camuffano nella quotidianità dei gesti e dei comportamenti.
Però esistono, non se ne può prescindere. Anzi, diventano un viatico saporoso da far riemergere ogni volta che la monotonia reclama il brivido di inquietudini intriganti.
Prediligo in effetti evocava un volto, un’atmosfera, un desiderio.
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Era accaduto un pomeriggio di ottobre, fra i rituali di quelle assemblee che mettono di fronte l’ipocrisia faconda delle istituzioni e la diffidenza disarmata della gente.
Mistificazioni, piaggerie, narcisismi ed esercizi di diplomazia aggirante: niente che non fosse ascritto al ruolo di un funzionario pubblico di livello.
Il volto apparteneva a Dianella, una contadina dalle mani forti e gli occhi di cerbiatta a primavera.
Una donna nel pieno di quella maturitĂ che definisce al meglio il ruolo di madre, ma che fa ancora trapelare una sensualitĂ bisognosa di attenzioni.
Non proprio bella, ma fascinosa e seduttiva.
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Marcello possedeva una cultura eclettica. Di quelle che hanno letto i libri e osservato la vita, ricavandone una particolare organizzazione dei processi mentali che rende capaci di afferrare all’istante i risvolti di una situazione, di intuire un temperamento e perfino la storia aggrovigliata di una persona.
Con Dianella il dialogo era stato sorvegliato, come si conviene fra due controparti. Chi protestava per le promesse mancate, chi si giustificava per le difficoltĂ oggettivamente insormontabili.
Tutto secondo routine.
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A sballare gli schemi irruppe quel verbo: prediligo.
La voce di Dianella aveva un timbro intenso e arrochito.
Prediligo si restrinse sulle ultime sillabe con sonoritĂ cupe.
La “o” finale rimase sospesa come l’antro di un abisso che risucchia sensazioni e volontà .
Quella vocale, disegnata su una bocca tumida, sembrò la materializzazione di un istinto, la profferta di una voluttĂ senza reticenze.Â
Quella parola, in bocca ad una donna che passava le giornate tra fieno, mungiture e formaggi a stagionare, gli parve la folgorante rivelazione della leggiadria che una genziana irradia fra l’erba intristita dall’inverno.
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Fu la scintilla di uno di quegli scombussolamenti del raziocinio a cui si dĂ il nome di infatuazione. Una infatuazione senza presupposti e senza prospettive. Totalmente svincolata dai riferimenti abituali di chi per le donne aveva sempre speso energie e immaginazione.
Pensava a queste cose Marcello, scendendo fra il tripudio di tinte che spennellavano le montagne attorno come in un paesaggio divisionista.
La luce mielosa del tramonto stendeva una pellicola cinerina sui prati e sulle cascine.
L’autunno, insomma, rendeva protagonista quella Bagolino mimetizzata fra gli alpeggi che d’inverno sono opachi e fanno tutt’uno con l’ardesia dei fienili e il silenzio della civiltà contadina.
Un silenzio dignitoso e carico di riserbo.
Marcello si concedeva volentieri alla ricognizione di quegli scenari, ma il cuore del suo interesse rimaneva Bagolino paese.
Era stata una rivelazione la prima volta.. Salendo si era preparato al solito borgo delle convalli valsabbine. Una teoria di case lungo la strada, la piazzetta belvedere col monumento ai caduti di tutte le guerre, l’osteria con l’insegna “Mokalceste” accanto a un affresco ex voto contro pestilenze ed altre calamità .
Una volta dentro avevo scoperto un paese diverso.
Bagolino, infatti, è pieno, compatto, corposo. Bagolino è un paese tutto intero, con case e negozi. Case grosse a tre, quattro piani. Grigie, austere e con i particolari che attestano un’opulenza discretamente esibita.
L’arco di un portone, il fregio dorato che corre sotto lo spiovente di un tetto, la lucerna che vigila sulla penombra di un crocicchio.
La pietra è dominante. La pietra accatastata nei volumi riquadrati dei caseggiati che si sostengono e si compenetrano. La pietra caliginosa di certe gallerie rischiarate da riverberi indistinti. La pietra dei muretti a secco che si aprono su orti, pollai e legnaie. La pietra delle tante fontane.
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Ecco, il risuonare delle fontane negli slarghi senza passi, senza finestre e senza giochi di bambini , costituiva per Marcello una sorta di fascinazione ipnotica. Un motivo per cogliere ogni possibile occasione per sostare tra quelle atmosfere incantate.
Adesso era arrivato il fatto nuovo. La severa impassibilitĂ del contesto si animava. Una folgorazione insospettata oscurava la trama delle pulsioni culturali ed esistenziali che lo avvincevano a quel paese.
Da quel giorno l’interesse sovrastante si chiamò Dianella.
La storia, tuttavia, a dispetto di un esordio singolare si avviò ben presto sui binari di una inconcludente prevedibilità .
Per settimane, per mesi, Marcello continuò a proporre occasioni e modalità per un appuntamento. Niente. Dianella era un osso duro.
Disponibile, perfino trasognata al telefono, si irrigidiva ad ogni proposta di incontro.
Le telefonate così sforavano l’ordinario e diventavano esercitazioni rarefatte.
Il tempo perdeva i contorni reali e diventava una nuvola vaporosa da cui emergevano, alla rinfusa, invenzioni dialettiche, romanticherie e oscenitĂ .
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La trasgressione delle parole divenne un leit motiv eccitante.
Marcello aveva una certa dimestichezza con la creativitĂ appassionata e insinuante.
Dianella, che godeva di una rude e appagante fisicità matrimoniale, sentiva la privazione del corteggiamento. Di quelle inconsistenti profferte, cioè, che preludono a un trasporto disinibito ed esaltano il piacere dell’attesa.
In fondo discorrere d’amore senza farlo sembrava a Dianella il massimo dell’appagamento, senza le nevrosi e le ansietà di un tradimento in carne e ossa.
Così le reticenze e i dinieghi, frutto della diffidenza iniziale, divennero pian piano un convincimento irriducibile.
Il bello è che Marcello si adattò progressivamente a questa metamorfosi assecondando, con involontaria complicità il gioco della donna. Arrivarono ad uno stallo delle pulsioni, ad una paralisi della progettualità . Le telefonate, sempre più rade, divennero la sublimazione della vacuità intrigante.
L’attacco era per lo più banale, ma a un certo punto si accendeva una spia rossa e i due staccavano col tempo e con lo spazio. Come due aerei a diecimila metri, soli sopra le nuvole. Marcello vuotava i serbatoi della sua immaginazione. Dianella si riforniva del carburante di una perdizione senza peccato. Carezzevole e insinuante. Ogni tanto provava a lanciarsi, a gustare il brivido del salto mortale, ma sotto aveva già predisposto le reti di protezione.
Quell’anno carnevale arrivò di marzo. I mesi erano passati senza che accadesse nulla.
Dianella era ormai una nicchia preziosa della memoria, di quelle che si preservano per i tempi a venire, ma che escludono ogni implicazione con il presente.
Marcello raccontava ancora agli amici di quella bagossa che lo aveva irretito, ma dentro sentiva la definitiva inconsistenza del suo progetto di avventura.
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Capitava giusto carnevale, l’eterno ritorno di un’occasione da sballo.
Carnevale bagosso, s’intende. Quello da vivere dentro, senza bisogno di affinità individuate o di complicità esterne.
Il giovane lo aveva capito fin dalla prima volta, una decina d’anni addietro.
Allora era andato su, anche lui, con la folla degli assatanati del grandangolo, dei predatori di immagini schiacciati lungo i muri o appollaiati su una fontana a tentare di carpire la spontaneitĂ di un gesto che fiorisce e non si ripete.
Poi, nel prodigio di quel silenzio profanato, nel frastuono ossessivo degli sgalber che raspavano sui ciottoli, nella lussuria delle sensazioni, delle seduzioni fluttuanti, delle allegre oscenità , aveva compreso l’essenza di un carnevale diverso. Totale.
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Non c’è dubbio, lo spettacolo del carnevale bagosso è un incantesimo struggente.
Tempi caoticamente frammentati, ma ordinati da una misteriosa e sapiente regia.
Ondeggiare multicolore dei balli nei vicoli angusti.
Striduli sghignazzi dei mascher. Andirivieni frastornato. Osterie e bar rigonfi di beatitudini euforiche e indecifrabili.
Infine gli ultimi fuochi di un vitalismo estenuato in piazza Marconi, con la grande ariosa che centrifuga sullo stupore rapito della folla l’essenza orgasmica del carnevale.
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Proprio così. C’erano i rimandi antropologici, le sovrapposizioni della storia, le curiosità del folklore, la singolarità della scenografia.
C’era tutto il corredo delle ricerche che collocavano quella di Bagolino fra le più originali manifestazioni del carnevale.
Ma per gente come Marcello quello bagosso era solo un lungo, interminabile e laborioso orgasmo che esplodeva liberatorio dopo il crepuscolo. Quando i profili del Maniva erano ancora un rimescolio illanguidito di bagliori lontani.
E come ogni orgasmo che si rispetti anche questo si trascinava fatalmente la delusione della fine e la lusinga di una nuova attesa, la vanitĂ di un protagonismo effimero e la voglia di rimuovere in fretta una sovreccitazione impudica.
Dopo la forsennata sarabanda finale la folla si slargò sulla piazza fagocitando ballerini e pulsioni residue.
Si stava come sempre attoniti e imballati. Poi flussi misteriosi condussero la gente in su e in giĂą.
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Marcello si ritrovò alla Tavernetta. Lo intrigava quell’insegna bizzarra : “All’osteria del tempo perduto – Vino cattivo”. Lo metteva a suo agio la familiarità con la compagnia che si raggrumava di solito lì dentro. Semplici conoscenze. Varia umanità sparsa nei paesi della valle. Gente di città . Ma il carnevale, si sa, creava sintonie strane. Il misto, poi, era un catalizzatore di umori.
Il misto è un intruglio di vino annacquato con altre bevande.
Per il resto dell’anno appare per quello che è: una pozione invereconda.
A carnevale è il carburante giusto dell’ebbrezza collettiva.
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Marcello ne aveva giĂ spolverati sette-otto, quando di fronte a lui si posero ondeggiando due mascher. Un vecchio e una vecchia.
Maschere orripilanti, indumenti di panno ruvido, voci in falsetto.
Il dialogo con i mascher è surreale per definizione. Loro ti vedono, magari ti conoscono. Tu sei in balia di provocazioni strampalate, spesso di allusioni esplicite.
Se i misti hanno funzionato nulla ti sembra più tollerabile di quelle insensate trivialità , e così stai al gioco.
Anche Marcello si predispose alle schermaglie di quella sceneggiata.
Lo divertiva l’armeggiare del vecchio, con i suoi tentativi di palpeggiamento, mentre la vecchia bofonchiava ripiegata su un bastone di nocciolo.
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Fu nel difendersi da un affondo del vecchio che Marcello placcò la mano che guizzava a frugargli sotto il mantello.
Una mano energica ed un polso sottile. Levigato e arrossato dal freddo.
Il tramestio intorno, gli schiamazzi lontani, il sottofondo ossessivo di un altoparlante inciucchito. Per un attimo si azzerò ogni eco del reale. Marcello fissò i buchi che foravano la maschera incartapecorita.
Quegli occhi. Intensi e morbidi. Lampeggianti. Dove diavolo li aveva visti?
Il tempo di organizzare i pensieri e i due vecchi erano già spariti dietro un groviglio di mantelli, di cappelli fradici, di fumo stagnante.
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Fuori nevicava. Neve di marzo, larga e pesante. Copiosa.
Pareva un sipario che calava sul carnevale. La rivincita degli eventi naturali sul parossismo innaturale di quei giorni.
Quasi la dissolvenza incrociata di un film dalle suggestioni forti.
Sopra la piazza incombeva la prospettiva possente della Parrocchiale. Sulla facciata i riflettori proiettavano le ombre veloci dei fiocchi.
Marcello riuscì a scorgere i due mascher che si scrollavano la neve davanti all’ingresso vociante del Caffè delle Alpi.
Si avviò in preda all’eccitazione: era cominciata la caccia.
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Molto tempo dopo, cercando di ricostruire gli eventi di quella sera, Marcello provò più di una difficoltà .
Il livello di un’ebbrezza che si alimentava ad ogni bar, il trambusto dei richiami e delle pacche sulle spalle di amici fugacemente ritrovati e l’assillo di scrutare i movimenti della preda gli ingarbugliavano i riferimenti temporali.
Sicuramente, però, ricordava il crescendo di approcci tentati dalla donna travestita.
Dagli sguardi insistiti e ammiccanti, all’invito a bere un misto o una grappa alla pesca, fino all’infrazione plateale di uno dei tabù del carnevale bagosso.
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Ormai su di giri, Marcello cinse con forza i fianchi della donna e penetrò con la lingua nella fessura che tagliava la maschera sopra la bocca.
La donna trasalì, ma i suoi tempi di reazione erano allentati.
Quando finalmente riuscì a divincolarsi era già trascorsa quella frazione di tempo che confermava in Marcello sospetti e aspettative.
Avvertì imperiosa una sensazione ferina e primordiale. La caccia volgeva al termine.
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Fu dalle parti di Piazza Consiglio che la donna, lasciato il compagno, si infilò lungo una scalinata che penetrava nel cuore semibuio e silenzioso di “Osnà ”.
L’inseguimento sui gradini scivolosi creò qualche impaccio.
La raggiunse che faceva vibrare in affanno la gomma sottile della maschera.
Le scale si erano inerpicate nell’oscurità fino ad un portico semisbarrato dalla legna impilata con ordine.
Nello sbarazzarsi della maschera Marcello notò appena il languore dello sguardo sotto i capelli fradici.
Le mani frugarono sotto la stoffa ruvida alla ricerca di morbidezze palpitanti.
La precarietà della posizione esaltò due eccitazioni speculari.
Nel riprendere contatto con la realtà , più tardi, il giovane sentì riemergere, da una specie di vuoto pneumatico, il concerto delle grondaie tutt’intorno.
Carnevale, il vino, la neve, il desiderio, l’inseguimento, l’amplesso.
I pensieri si riordinavano torpidi e svolazzanti.
C’era una donna fra le sue braccia, ma le scorie dell’ebbrezza gli impastavano la lingua. Solo i convincimenti erano assoluti.
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Ne era certo, aveva fatto l’amore con Dianella.
L’approccio, quegli occhi, la manfrina della fuga. Tutto si teneva. Eppure… eppure l’accertamento di una verità innegabile gli parve, a quel punto, una dissacrazione inutile.
Quel volto ancora protetto dall’oscurità si armonizzava con l’enigma del carnevale e la bizzarria della situazione.
Perché dissolvere l’incantesimo?
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La donna parve intuire l’irresolutezza del giovane. Si ricompose in fretta e sparì verso il vicolo basso, lasciando impronte minute sulla neve marcia.
Marcello si avviò più tardi, facendo rosseggiare l’ultima sigaretta, inumidita e sprimacciata.
Nel ripassare davanti alle Strope i vetri appannati filtravano echi di canzoni dimenticate. Non nevicava piĂą e lui sentiva la felicitĂ elementare di spiaccicare la neve girovagando fra i balconi in silenzio e i portoni chiusi.
Gli sembrò che il carnevale sfumasse compiaciuto fra i tetti e le stelle lontane.
Pino Greco
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Grazie Pino, da tutti noi
Ubaldo
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ID27996 - 08/02/2013 08:58:20 - (Dru) - il linguaggio esprime l'epanfoterizein di Platone
Platone era prima di tutto un grande scrittore.Leggere Pino è come ascoltare la filosofia di Platone, mette all'essere il vestito adatto per quell'altalena che l'ente si gioca nell'esistente. Leggiamo..."la monotonia reclama il brivido di inquietudini intriganti" dove qui vediamo l'oscillare? ma in quella monotonia e il suo significato che parla all'inquietudine e gli reclama un senso, il suo appunto, non è questo un'altalena? non è questo un oscillare tra monotonia e inquietudine ( il suo contrario/contraddittorio)? che si parlano ? e questo poi..."Era accaduto un pomeriggio di ottobre, fra i rituali di quelle assemblee che mettono di fronte l’ipocrisia faconda delle istituzioni e la diffidenza disarmata della gente."... ecco questa diffidenza disarmata, orribile, come può una diffidenza ad essere disarmata, non è possibile ma è possibile scriverlo e anche con quel senso poetico che Pino magistralmente dà ai suoi scritti.