09 Ottobre 2007, 00.00
Bione
Radici

La calchera del Felihe

di val.

Grazie ad un nutrito gruppo di volontari, e nel ricordo di un personaggio fra i piů rappresentativi della storia bionese, č tornata allo splendore di un tempo la “calchera del Felihe”.

Grazie ad un nutrito gruppo di volontari, e nel ricordo di un personaggio fra i più rappresentativi della storia bionese, è tornata allo splendore di un tempo la “calchera del Felihe”.
Utilizzata per decenni da numerose famiglie per produrre calcina, la costruzione la si incontra lungo la strada sterrata sovrastata dalla Corna Nibbia che dalla frazione bionese di Bersenico Sopra porta al Salto.

Venne edificata da tal Felice Riccobelli, che riuscì a vivere una lunga vita in modo alternativo, sempre da “spirito libero”, una prerogativa tipica dei giovani di ogni generazione che lo rese assai popolare a Bione e dintorni. Tanto che ancora oggi si trovano giovani, d’età o di spirito, che ne rammentano le gesta.
L’idea di risistemare la sua calchera è venuta proprio per questo.

“Felice a scuola non c’era mai andato volentieri e forse non era nemmeno riuscito ad imparare a leggere – raccontano Oreste, Pergiulio e Giandomenico -. L’istinto innato dell’ingegnere però a modo suo doveva averlo. La misura lineare che riteneva più appropriata era “la quarta”, circa 25 centimetri, forse una delle sue spanne. I pesi erano tutti in “once”, ciascuna delle sue once valeva circa 300 grammi. Capacità e volumi erano misurati a “cahine” (mestoli) per le piccole quantità, oppure con la “zerla” per le più grandi”.
A Bione lo chiamavano tutti “Il Felihe” per come lo chiamava sua madre, Maria Caprioli, sposata con Giovanni, che lo mise alla luce il 30 aprile del 1.868.

Il Felihe aveva fra le sue prerogative soprattutto la buona salute e lo sapeva: lui in piĂą ci metteva anche la fortuna di avere i piedi piatti, cosa che gli fece schivare il servizio militare. Le nozioni tecniche che possedeva, ma soprattutto le ristrettezze economiche, negli anni precedenti al 1926 lo avevano portato ad emigrare piĂą volte in Francia ed in Argentina.
Soldi però non ne aveva mai fatti, anche perché non gli interessavano se non per vivere.
Non aveva più voglia però di girare il mondo ed è per questo che, armato di picco, pala, “livera” e due pali per il piano inclinato, si è costruito la sua calchera con l’intenzione di affittarla e guadagnare qualche spicciolo, giusto per evitare di dover migrare ancora.

Uomo saggio, onesto e laborioso, aveva un concetto di ricchezza tutto suo: “Sognava di poter avere molte galline bianche per poterle controllare a distanza, una mucca da latte, la grazia di possedere una “quarta” di letame sul suo campo quando era stagione, una scrofa con tanti maialini – ci racconta chi l’ha conosciuto in vita -. Ebbe solo qualche capra. Però ha goduto più di ogni altro dell’affetto e della stima di tutti quello che lo hanno conosciuto, soprattutto di noi che eravamo giovani e che alla sua morte, l’ormai lontano 30 dicembre del 1.955, ci siamo ritrovati a vegliarlo e a ricordarlo poi come un caro nonno”.

E’ forse “per mantenere un’eredità d’affetto”, oltre che per preservare un’opera semplice, ma di grande importanza per comprendere un recente passato altrimenti già dimenticato, che si è formato il Gruppo Amici della calchera.


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