13 Settembre 2015, 07.29
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La cura del gioco

di Da l'Osservatore Romano

Il gioco, inteso come momento di confronto, di creazione e di condivisione di regole, quindi il gioco con gli altri, con i coetanei e senza la mediazione degli adulti, è certamente una tappa fondamentali nella crescita pscofisica dei nostri figli


Oggi nella realtà famigliare e scolastica sembrano esistere solo due componenti: i portatori di un problema e quelli che non lo sono. Da tempo, comportamenti che segnalano modalità diverse nella crescita emotiva, cognitiva e relazionale o sintomi come la balbuzie, i tic, la difficoltà nella lettura, il tratto oppositivo, l’irrequietezza vengono classificati come problemi neurobiologici.

Il sintomo è considerato un handicap.
Dimenticando che la rivoluzione freudiana della cura giustamente ha visto il sintomo come una “comunicazione”, un segno di cui bisogna ricercare il significato. Ha riunito la mente con il corpo, la parola con il linguaggio del corpo.

Oggi la crisi del pensiero coincide inevitabilmente con la fine della trasmissione culturale tra le generazioni e inevitabilmente con la negazione del percorso individuale che ha i suoi tempi fisiologici ed emotivi.
Il lungo tragitto della crescita e i modi della cura si sono man mano sempre più ridotti e banalizzati in quanto non funzionali: tutti devono rispondere a uno standard, a un modello adeguato alla società dei consumi. L’unico valore è il denaro e il potere che ne deriva.

Ma se tutto deve servire al mercato ogni senso si smarrisce
. Da qui la confusione dei ruoli delle due figure addette alla cura: i genitori e gli insegnanti. La casa si costruisce a partire dalle fondamenta e le fondamenta per la nostra specie sono la famiglia. Come hanno detto con una bella metafora Benasayag e Schmit, l’ordine del mondo inizia all’interno del focolare e non sull’uscio.

Più la specie è evoluta e più i tempi di apprendimenti complessi accanto alla madre e al padre si allungano.

Assistiamo da tempo a un attacco all’identità del genitore e dell’insegnante.
Madri e padri, precari e senza tempo, non possono accogliere la lunga dipendenza dei figli e la nostra società adultocentrica li costringe a immettere i figli in un quotidiano sempre più lontano dai loro bisogni. Viviamo in una realtà sociale dove da tempo è scomparsa la cultura dell’infanzia.

Per esempio, è significativo, in senso negativo, il mutamento radicale che ha subito il gioco. Il gioco tra coetanei, come esperienza simbolicamente creativa e riparativa delle inevitabili frustrazioni, è scomparso e al suo posto sono apparse le “quotidiane” attività sportive, la televisione e i videogiochi.

Le regole condivise tra bambini e la creazione di nuove favorivano la creatività e legami interpersonali come l’amicizia. Sulla scena è comparsa la figura dell’insegnante psicologo che dovrebbe farsi carico delle ferite emotive degli alunni. I media dopo fatti assai tragici fanno cadere sulla scuola responsabilità che non le appartengono. Una scuola migliore ha bisogno di famiglie migliori.

Il desiderio di conoscere dovrà poi essere promosso dagli insegnanti che si prenderanno cura di loro.

Ma per realizzare questo obiettivo i bambini dovrebbero entrare nella scuola oltre che con il desiderio d’imparare, che è legato all’immagine di sé che acquisiscono nella relazione con la madre e con il padre, anche con l’interiorizzazione di comportamenti sociali adeguati a interagire con la nuova realtà che la scuola rappresenta: un grande gruppo di coetanei e nuove figure di adulti che lo aiutano, lo stimolano, lo apprezzano, lo correggono.

Il rapporto con l’insegnante e la sua autorevolezza
deve essere stato già risolto e quindi accettato con il genitore all’interno di una relazione asimmetrica: un adulto e un bambino, un adulto e un adolescente.

L’attuale cultura adultocentrica, che tende a negare le differenze tra ruoli e generazioni, crea relazioni simmetriche all’insegna di una pericolosa confusione.

Quando la televisione consiglia
, per i contenuti di un film, la visione solo con la presenza degli adulti, viene commessa una gravissima mistificazione perché nessun genitore può proteggere con la sua presenza il figlio da ciò che vede e ascolta, anzi se ne fa paradossalmente complice e il figlio lo sa.

di Aurora Morelli da L'Osservatore Romano 12 settembre 2015




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