15 Settembre 2015, 08.02
BLOG - Eppur si muove

La felicità non è una farfalla

di Leretico

Adattando la famosa frase di Agostino sul tempo, presa dalle Confessioni, al concetto di felicità, essa potrebbe risultare così: “Se nessuno m'interroga [su cosa sia la felicità], lo so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so”.


Nel momento in cui ci si ferma a pensare per definire cosa sia la felicità, a capire perché sia tanto desiderata e quando esattamente si può affermare di averla raggiunta, cominciano i veri problemi.
E insieme ai problemi di non possederne la definizione potrebbe rimanere anche l’angoscia di non assaporarne mai la dolcezza, di non aspirarne mai il profumo eccitante, di non vederne le divine fattezze mentre con la punta di un dito si cerca invano di percorrerne le curve sinuose.

Questa comune difficoltà sulla definizione della felicità si intreccia con un altro detto popolare che recita così: “i soldi non fanno la felicità, figuriamoci la miseria”, che porta l’accento sul possesso di beni materiali come condizione concreta per la felicità, forse imperfetta ma migliore della sicura infelicità della miseria.

In ogni caso l’importanza che si attribuisce alla felicità ha attratto da sempre l’attenzione dei filosofi, come spiegano bene Fulvia de Luise e Giuseppe Farinetti nel loro libro “I filosofi parlano di felicità” (2014).
Molti di loro si sono sforzati di circostanziarne il contenuto, di arrivare ad una definizione soddisfacente.
Questo tentativo derivava dalla ferma convinzione che la felicità fosse una condizione non effimera e incomprensibile, ma legata alla conoscenza: qualcosa da acquisire attraverso la parte più importante dell’uomo, la competenza che lo distingue dagli animali: il pensiero.

Qui c’è subito da premettere, avendo citato il pensiero, la presenza di un discrimine esistente tra ragione e intelletto che lo compongono, anche se Cartesio li considerava concetti equivalenti.
Secondo il suo punto di vista non c’era gerarchia tra intelletto e ragione e quindi non si potevano separare le attività conoscitive da quelle pratico morali.

Spinoza non la pensava così, si appoggiava alla differenza a suo tempo stabilita da Aristotele tra Dianoia (ragione) e Nous (intelletto); la prima in grado di arrivare alla conoscenza tramite i sillogismi, il secondo in grado di cogliere intuitivamente i principi primi (principio di non contraddizione, principio del terzo escluso e principio di identità) ossia quelle premesse che nel sillogismo non possono essere conclusioni derivanti da altri sillogismi.

L’intelletto sarebbe quindi “logicamente” superiore alla ragione.
Questa gerarchia si mantenne anche nel pensiero neoplatonico in cui il “logos” (ragione) era quell’elemento intermedio, contenente la molteplicità (di cui era principio), che permetteva il collegamento tra il mondo percepito con i sensi e l’Uno, mentre il Nous (intelletto) arrivava dove il logos non avrebbe mai potuto: alla comprensione intuitiva dell’assoluta unità della molteplicità all’interno dell’Uno.
La ragione era dedicata a cogliere le differenze, l’intelletto l’unità che soggiaceva a queste differenze. La ragione poteva capire il finito, l’intelletto l’infinito.
Kant volle scambiare i concetti definendo intelletto ciò che per Spinoza era la ragione e viceversa. Hegel invece tornò alla definizione spinoziana.

Questa piccola dissertazione ci servirà un po’ più il là
, per poter individuare quale sia, tra ragione e intelletto, il mezzo di conoscenza più adatto con cui arrivare alla felicità, visto che abbiamo premesso che la felicità è una condizione derivante dalla conoscenza.

Il primo esempio filosofico di felicità fu certamente Socrate, che proponeva, nelle opere di Senofonte, un modello eroico di armonia interiore coltivato con sicurezza attraverso la virtù e in contrasto con l’edonismo del suo tempo.
Seguire la virtù avrebbe permesso di raggiungere la felicità.

Platone allargò a sua volta l’ambito di esercizio delle virtù, comprendendo nella sua impostazione anche il contesto pubblico della vita e le sue condizioni.
La felicità si poteva guadagnare solo in una “polis” dove il piacere fosse limitato dalla virtù della giustizia e della legalità e dove il sapere fosse riconosciuto come valore sociale preminente, superiore all’onore e ai piaceri privati. Platone, attraverso Socrate pesonaggio, voleva rispondere a quelle posizioni, molto diffuse nella classe dirigente ateniese del suo tempo, che vedevano nel rispetto delle leggi e delle regole un ostacolo al raggiungimento del massimo bene per se stessi, unico modo giudicato veramente utile per raggiungere la felicità.

Affermando il primato della felicità della polis, includente ipso facto quella dell’individuo, Platone tentava di arginare la causa secondo lui principale della crisi profonda in cui versava la società del suo tempo.
Voleva contrastare soprattutto l’edonismo sfacciato di chi deteneva la ricchezza e il potere, come ben si evince dalle parole che mise sulle labbra di Callicle nel dialogo “Gorgia”:

io penso che la natura stessa lo renda evidente: è giusto che chi è superiore abbia di più di chi vale di meno, il più potente del più debole. E dappertutto mostra che è così, sia tra gli animali sia in tutte le città e le stirpi degli uomini: così sentenzia il criterio del giusto, il più forte comandi sul più debole e abbia di più”.

La legge di natura, la legge del più forte doveva decretare chi avesse diritto ai beni e quindi alla felicità. Siamo testimoni di come questo modo di pensare perduri ancora oggi.
Nonostante gli sforzi di Platone, che nella sua Repubblica collegava l’esercizio della virtù da parte dei filosofi reggitori dello Stato al divieto di possedere proprietà private, ciò non poteva essere una risposta sufficiente.
Bisognava indicare un criterio di felicità che coinvolgesse maggiormente l’individuo e la sua sfera privata di azione libera.
Aristotele infatti fu molto critico del sistema platonico su questo punto. Altre scuole, come quella di Epicuro, seguirono invece l’impostazione che legava la felicità al piacere anche se non nei termini materialistici di cui fu poi accusato.

Epicuro fu il filosofo più frainteso della storia, soprattutto perché indicò nel principio del piacere il regolatore della vita dell’uomo, un principio non da perseguire in mille modi, cosa che avrebbe portato disequilibrio e dolore, ma stato normale della sensibilità umana derivante dalla soppressione proprio del dolore.
A nulla valsero le sue spiegazioni “di tendere all’equilibrio allontanando il dolore dalla vita (aponia) e di puntare alla virtù intelligente per praticare la giusta misura nella selezione dei piaceri”.
Rimase nella storia la sua immagine negativa di crapulone intento ai piaceri mondani portata avanti dai filosofi moralisti greci romani e cristiani.

La colpa di Epicuro fu il rifiuto del principio metafisico di bene, avendo preferito indicare il piacere di vivere come unico fine dotato di stabile fondamento biologico.
Epicuro si poneva in radicale opposizione con quel pensiero che tendeva a vedere il bene, e la felicità, in un mondo al di là dell’esperibilità, della concretezza, mentre molto concreti nell’aldiquà erano il dolore e la sofferenza.

Fu Aristotele che cercò più di altri di fornire criteri più chiari ed equilibrati per raggiungere la felicità.
Innanzi tutto identificò “l’amore di sé, inteso come predilezione spontanea ma anche come forma positiva di giudizio su se stessi” “chiave di ogni rapporto, di ogni sentimento che ci lega ad altri sulla base di qualche tipo di condivisione, qualificandoci come esseri umani che hanno tra loro un rapporto reciproco di riconoscimento”.
Concetto che ritroviamo nell’evangelico “ama il prossimo tu come te stesso”.

Egoismo perfetto è quello di chi dà il massimo spazio alla parte più autorevole di sé, impegnandosi al controllo delle proprie pulsioni meno nobili e riservandosi di agire in modo “bello e grande”.
Dal riconoscimento negli altri della tensione verso ciò che è “bello grande” deriva l’allargamento della nostra sfera affettiva, in cui includiamo appunto anche gli altri perché li consideriamo partecipi di un fine simile al nostro.

È solo dall’amore di sé che deriva quindi l’amore per gli altri, non viceversa.
E potremmo qui allargare il concetto includendo l’amore di coppia moderno che per portare alla felicità non può mai essere annichilimento di una parte rispetto all’altra, non può essere mai passione pura e distruttiva, ma deve trovare il suo fondamento nella capacità di donare sé stessi solo quando si è imparato veramente ad amare se stessi in modo equilibrato.

D’altro canto l’amore di sé non può essere confuso con l’avidità di possedere cose, il livello più infimo del desiderio umano di raggiungere la felicità.
L’amore di sé, se consapevolmente orientato, può realizzare il meglio nell’azione. Qui c’è l’impostazione pratica di Aristotele riguardo la ricerca del bene e della felicità, fatti derivare dall’orientamento consapevole dell’agire. Tale consapevolezza è conoscenza proveniente dalla Dianoia (ragione) e in questo senso la felicità viene dalla conoscenza.

L’individuo è spinto dalla ragione a realizzarsi come entelechia, a esprimere se stesso trovando nel modo di agire che gli è più congeniale la massima gioia che può dargli la vita.
Ma esiste per Aristotele un altro tipo di felicità, ben più elevato, connesso al Nous (intelletto), ed è il perseguimento del sapere per il sapere attraverso l’attività teoretica orientata alla contemplazione. A quest’ultima indicazione si aggancerà tutta la teologia cristiana a cominciare da Agostino per continuare con San Tommaso, il quale imporrà l’attività contemplativa come la più assoluta risorsa dell’uomo per raggiungere la vera felicità: la comprensione della causa prima, cioè Dio.

Noi qui non approviamo del tutto chi ci indica nella contemplazione l’unica e migliore via.
Esprimiamo invece considerazione e simpatia sia per Epicuro che per Aristotele in quella parte del loro pensiero in cui ci richiamano la felicità pratica figlia della saggezza.
Solo così infatti si può rispondere allo scetticismo del detto popolare che vede nella miseria un’assoluta infelicità, mentre associa al possesso di denaro una felicità imperfetta ma pur sempre una condizione migliore. Non è infatti la quantità di denaro che si possiede che fa la differenza, anche se permette di soddisfare in maggiore quantità i bisogni materiali dell’uomo.

È la realizzazione del progetto inscritto nella propria anima che porta alla felicità, cosa che si può realizzare a volte possedendo poco o nulla.


Dopo tutto questo tragitto siamo un po’ affannati, perché abbiamo capito che la via per la felicità non è facile.
Ciò nonostante abbiamo imparato alcune cose importanti: la felicità è una condizione consapevole che dipende dall’equilibrio di tre componenti: passione, ragione e intelletto.
La prima spinge per il possesso dei beni, la seconda ci occorre per gestire i talenti che abbiamo in noi e ci permette di puntare alla realizzazione di noi stessi nel mondo, il terzo ci serve per comprendere la spiritualità insita nell’essere umano e che ci spinge al trascendente.

È solo la giusta compresenza di queste tre parti che può farci avvicinare veramente alla felicità che dunque non è una farfalla che continuamente sfugge alla nostra incerta presa dileguandosi lontana nel bosco della vita, ma una condizione stabile che ogni uomo può raggiungere e mantenere se è in grado da un lato di individuare qual è il proprio scopo nel mondo e dall’altro di perseguirlo con il senso di equilibrio che le virtù sono in grado di conferire.

Leretico




Commenti:
ID61131 - 15/09/2015 09:36:33 - (Dru) - L'importante

da un punto di vista del punto di vista, la filosofia, è non pensare astrattamente questo processo delle diverse parti della concettualizzazione filosofica, se non come momenti o il comune delle differenti posizioni astratte del concreto pensare. È necessita il pensare che tutto è uno.

ID61135 - 15/09/2015 11:12:26 - (Dru) - Eraclito per Leretico

« Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l'avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo e Leretico. »

ID61142 - 15/09/2015 19:46:42 - (Leonardo10) -

Complimenti, lo rileggero' con piacere.

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