Si racconta che, verso il 600 a. C. (ma c'è chi sostiene fosse il 490 a.C. - e del resto, si sa, queste cose non hanno tempo), in un'Atene piagata dal morbo della peste, l'arconte Solone mandò a chiamare un uomo da Creta...
... E che quegli per mare arrivò. Istruì la città sul sacrificio, istituì riti e purificazioni, iniziò gli eletti ai misteri – e il morbo fu vinto.
Il suo nome era Epimenide e quando prese il mare, tornando alla terra natia, disse qualcosa destinato a rimanere famoso come il 'paradosso del mentitore': disse, cioè, di esser mendace.
Lo disse con quell'astuzia sottile che solo può avere chi a lungo abbia barato al gran gioco della vita. E, una volta che ebbe mentito dicendo il vero (o, se si vuole, detto il vero mentendo), forse, raggiunse Cnosso dagli ampi palazzi. Ma di questo, non è dato sapere.
Eppure quel mare stretto tra il lembo di terra che è l'Attica e gli antri di Creta non era affatto nuovo ai traffici loschi di naviganti inaffidabili.
Il suo nome stesso lo testimonia: Egeo – come Egeo si chiamava il padre di Teseo, nonché re di Atene, morto suicida per una menzogna.
È una storia tragicomica (com'è tragicomico se non tutto almeno gran parte dello spirito ellenico), che forse non merita d'esser raccontata – ma tant'è.
Preda d'un illecito amore per il candido toro venuto dal mare – dono di Poseidone – Pasifae, sposa di Minosse, signore di Cnosso, commissiona a Dedalo, architetto ateniese, una vacca lignea in cui infilarsi per unirsi, ingannandolo, al toro.
E già qui v'è una prima menzogna, perpetrata dall'uomo dotato di tecnica e ingegno all'animale, dietro cui traluce il divino. Poi, nasce Asterion, il Minotauro: capo taurino, umane membra – come a dire: l'espediente genera un essere ibrido, indefinito.
Il mito si snoda poi di inganno in inganno, finché Teseo, ucciso il Minotauro, se ne torna in patria montando vele nere, segno luttuoso, invece che le bianche di vittoria – come invece convenuto col padre.
Il quale, vedendolo all'orizzonte e credendo il figlio ucciso, non resiste alla pena e si getta sugli scogli. Ma, si dirà, non certo può un figlio volere, anche se principe, la morte del padre! No! Non sarà stata malvagia menzogna, ma semplice svista o banale dimenticanza! Sia pure – ebbene, anche questo è mentire...
Ma l'elenco dei mentitori passati su acque greche non finisce certo qui.
Su tutti però merita una menzione d'onore quell'Odisseo tessitore d'inganni di omerica memoria, del quale mette conto ricordare la menzogna suprema: quella sul nome, perpetrata ai danni del Ciclope.
Egli infatti, a Polifemo che chiedeva chi fosse, rispose di chiamarsi 'Nessuno', riuscendo così a far credere di non essere nessuno! L'eco di quella bugia giunge ancora a noi, se nel 1871 Lewis Carroll scrive nel celeberrimo 'Alice attraverso lo specchio': “Quattromila duecento e sette, questa è la cifra esatta” disse il Re, mostrando l'agenda.
“Non ho potuto mandare tutti i cavalli, perché due mi servono per la partita. E non ho mandato nemmeno i Messaggeri. Sono scesi in città, tutti e due. Guarda un po' lungo la strada, e dimmi se ne vedi almeno uno”.
“Sulla strada – mi par di vedere – mah! – nessuno!” disse Alice.
“L'avessi io una vista così acuta” commentò il Re con grande calore “Riuscire a vedere Nessuno! E a questa distanza, poi! È già tanto se riesco a vedere le persone vere, con questa luce!”
Mai vi fu mistificatore più sottile, falsario più abile, sofista più profondo.
Mai la parola creò abissi più profondi: giacché, propriamente, lì un abisso s'era creato tra la parola e la vita. E certo quella fu la plastica raffigurazione di una doppiezza della parola stessa e, dunque, del pensiero, poiché la prima è del secondo segno. Colmare la voragine è il compito del pensiero – compito arduo e forse impossibile.
Compito a pieno titolo assunto da quel fenomeno poderoso e unico al mondo che fu la filosofia.
La quale si fa carico del macigno del falso e tenta caparbiamente – perfino eroicamente – di sollevarlo, di portarlo alla cima, di evitare che frani e, franando, distrugga quanto a valle s'è costruito.
Ma, ahimè, come in un incubo sisifeo, il masso sempre cade, e sempre il filosofo (che non è altro che colui che pensa) è chiamato a ridiscendere, a raccoglierlo ancora.
Si pensi alla querelle tra Platone e i Sofisti, che, per brevità, potremmo definire come gli imbonitori del tempo in materia di conoscenza: l'opera decisiva a riguardo è, appunto, il dialogo intitolato 'Sofista', che si presenta come un clamoroso tentativo di smentita, da parte del filosofo, della pseudo-veridicità delle tesi avversarie.
Il terreno di battaglia è la definizione di ciò che sia vero e di ciò che sia falso, ma in gioco c'è molto, molto di più: la posta in palio non è infatti altro che l'Essere, e il dialogo infatti si svolge tutto all'ombra lunghissima di Parmenide, 'venerando e terribile', che dell'Essere (qualunque cosa significhi) fu sacerdote.
Non è certo questo l'oggetto del presente articolo, se non in forma collaterale: quel che però ci preme sottolineare è che Platone configura l'intero dialogo come una caccia, dove spesso capita di non più capire chi sia ad esser braccato e chi a braccare – chi, cioè, dica il vero e chi no.
Insomma, la Grecia (sia che si faccia riferimento ad una sfera mitologica, come nel caso del mito di Teseo, sia che si consideri l'ambito sapienziale cui invece appartiene la figura di Epimenide, sia che ci si rivolga infine alle testimonianze platoniche sull'utilizzo della retorica da parte dei Sofisti – e si potrebbero citare numerosi altri esempi, da Esiodo ai lirici fino ai tragici) pare avere un rapporto privilegiato con la menzogna – e, dunque, con la verità.
Ma questa non è solo che una faccia di un'erma bifronte: giacché infatti lo spirito greco è infinitamente più sottile e sfuggente. Quel che infatti il pensiero greco compie, in un arabesco di infinita complessità e raffinatissima grazia, è di non fermarsi alla sola considerazione della coppia vero-falso (coppia che è a fondamento della possibilità del discorso filosofico-epistemico), ma di rivolgersi (in senso proprio etimologico) su se stesso, prendendo in esame la dicibilità di quella stessa coppia.
E così facendo, il pensiero si ritrova invischiato in se stesso, risucchiato in un gorgo ancora più profondo di quello da cui tentava, annaspando, di salvarsi.
L'erma bifronte perciò non è più nemmeno un'erma, ma un calembour di significati intrecciati, una caleidoscopica rifrazione di volti e di maschere à la Ensor, un'allucinata sovrapposizione di facce senza viso, in cui il tentativo, operato da parte del pensiero, di orientarsi nel labirinto costituito dal pensiero stesso, è proprio la causa del suo smarrirsi attonito – essendo questi appunto tanto la via da percorrere quanto colui che è chiamato a percorrerla.
Detto in altri termini e tentando di ovviare ai giochi di parole (che, paradossalmente, è quanto si è appena sostenuto essere impossibile!): in Grecia emerge drammaticamente il significato della menzogna, che a sua volta mette in scacco il pensiero che l'ha evocata. Ma alla menzogna si è giunti proprio mettendo alla prova il pensiero, temprandolo, raffinandolo, rendendolo un che di diafano, di puro.
La menzogna, cioè, è una forma superiore di conoscenza. Ma la conoscenza, se è conoscenza, dev'esser veritiera!
E dunque? L'inabissarsi del pensiero, il suo naufragio perpetuo è il suo stesso manifestarsi, e il suo manifestarsi – e quindi il suo naufragare – è il suo stesso essere salvo, in un tutt'uno di estasi e agonia, vittima e carnefice, morte e vita, falso e vero. Fuori di esso, al sicuro sulla terra ferma, non resta che l'indicibile, che è silenzio.
.anche il disegno è di Nicola Zanoni
ID64133 - 01/02/2016 16:53:45 - (Leretico) - Complimenti
La verità è una naufragare, il pensiero che pensa la verità è, come dici tu, un naufragio perpetuo: "il suo naufragare – è il suo stesso essere salvo". Mi piace molto questo tuo scritto.