Un folto pubblico ha riempito per due sere il salone Pio XI di Gavardo per lo spettacolo della neonata associazione culturale La pulce nell'orecchio intitolato «Urban - dove stiamo andando», liberamente tratto da un libro di Marcello Zane.
“C’era una volta… un pezzo di legno”, o meglio, il tronco tagliato di un vecchio albero, abbandonato nel bel mezzo di un cantiere, attorno a cui si dipanano storie, memorie e misteri di un piccolo paese di provincia in bilico tra presente e passato, modernità e recupero delle proprie radici.
La neonata associazione culturale gavardese “La pulce nell’orecchio” ha voluto celebrare a suo modo i giorni della memoria (della Shoah e del bombardamento di Gavardo del 29 gennaio 1945), mettendo in scena uno spettacolo teatrale brillante e impegnato al tempo stesso, dal titolo “Urban - dove stiamo andando”, per la regia di Michele Beltrami.
Il folto pubblico del salone Pio XI, nelle due repliche del 19 e 20 gennaio, ha potuto constatare, oltre alla bravura e alla simpatia dei giovanissimi attori, anche l’interesse delle nuove generazioni per un tema - la memoria - che solitamente è appannaggio di chi ha qualche primavera in più sulle spalle.
Lo spettacolo, liberamente tratto da “Il caso Campo Fiera” di Marcello Zane, si apre con immagini di ruspe che abbattono vecchi edifici per lasciare spazio a nuove moderne costruzioni.
“C’è un paese che sta cambiando” si legge nella presentazione “cambiano gli edifici, cambiano le persone, perché crescono, invecchiano, cambiano i tempi che suggeriscono diverse filosofie”.
Il ritrovamento di un tronco reciso desta la curiosità del giovane ingegnere responsabile del cantiere, che decide di indagare sul mistero di un poeta che, in passato, si era rifugiato fra le fronde di quell’albero, osservando dall’alto la vita dei propri concittadini e anticipando, con sibilline premonizioni, i cambiamenti del mondo che brulicava ai suoi piedi.
I riferimenti a Italo Calvino si esplicitano nella lettura di alcuni brani tratti da “Le città invisibili”, inseriti nella surreale cornice di un incubo in cui il protagonista scopre la verità sul poeta, di cui nessuno vuole parlare, attorniato da inquietanti figure di vecchie megere a metà tra le “accabadoras” (terminatrici) della tradizione sarda e le moire-parche della mitologia greca e romana.
Fanno da contraltare alle scene più cupe e oniriche i divertenti siparietti di tre anziani signori, legati ai ricordi di un passato in cui ci si ritrovava nelle piazze, si chiacchierava e si scherzava, senza pensare di abbandonare il proprio paese natìo per trasferirsi in città , come succede invece al personaggio della giovane e intraprendente Viviana.
Il sottotitolo “dove stiamo andando” si trasforma allora in una domanda: quale futuro per gli uomini e le donne di oggi e di domani, che troppo spesso dimenticano il proprio passato per lasciarsi accecare dai miti del progresso e della modernità , e negano valore alle parole di chi, come il fittizio poeta dello spettacolo, denuncia l’inarrestabile avanzata del cemento che divora un paese, le sue radici e le sue storie?
“Così, a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi” (Italo Calvino, Lezioni americane).
Alfredo Cadenelli
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