15 Maggio 2016, 11.17
Valsabbia
Terza pagina

Donne e madri d'altri tempi

di Giuseppe Biati

Le donne nella società contadina di montagna fino al secondo dopoguerra


Dissertare sulla condizione femminile nella società contadina di montagna – della montagna valsabbina – fino al secondo dopoguerra è primariamente e necessariamente sfrondare l'idea, spesso comune, di raccontare un sereno ed immaginario ambiente composto da donne gaie e spensierate in verdi ed adamantine vallate.

Verdi e straordinariamente suggestive lo erano le convalli – quali la Pertica, il Savallese, la Conca d'oro, ecc. - che afferivano alla più ampia Valle Sabbia, ipotetica e virtuale arcadia per poetiche visioni, più realisticamente intessute del “quotidiano faticar” per mettere insieme, da parte di quelle popolazioni, abbastanza coltivi per non morir di fame.

Su queste terre montane va ricomposto il mosaico di grevi silenzi, di sottaciute pulsioni, di costanti azioni, di delicati sentimenti, di incompiute speranze delle donne; vanno sottratte all'offesa dell'oblio quei momenti e quelle esperienze esistenziali, dominate da intrecci di umanità sofferta, di fuggevoli e felici attimi, di lotte ossessive con una terra avara e pietrosa, di ansie di liberazione dalle strettoie obbligate da convenzioni e regole di una società sempre chiusa, spesso ingiusta, a volte oppressiva.

La gente contadina, di montagna in particolare, va capita nelle consuetudini, nelle tradizioni come certezze, nelle usanze, nel conformismo supino riverberato dal passato sul presente, che formavano la gabbia costrittiva di un insieme di compartecipi, per lo più autosufficienti (chiamato dall'antropologia sociale - gruppo -) costituitosi sulla base di modelli molto simili a leggi, con norme grondanti ammonizioni taglienti che fissavano diritti (pochi) e doveri (tanti) dei membri nelle loro reciproche relazioni e in rapporto a comuni interessi.

Entro questa cerchia di consuetudini si era maturato lo spazio coriaceo dei paesi, dove le poche libertà dell'individuo si codificavano come inconcepibili se separate da quelle della comunità.

Per traslato si sostanziava una immediata ricaduta di tutto ciò sulla vita familiare, dove identitario era il capostipite. Il casato del nonno si ereditava come patente di appartenenza clanica, a tal punto che si diceva “di chi è” quel o quell'altro/a figliolo/a che si faceva largo nella vita, e non “chi è”, poiché nell'universo contadino, e montanaro in particolare, si era qualcuno soltanto se a qualcuno si apparteneva.

In questo contesto va inserita la condizione delle donne contadine e montanare, dove i pochi scatti di rabbia e acredine che ponevano l'accento su quei duri manierismi si liquefacevano nel solco tracciato dalla tradizione, madre gravida di concetti inestirpabili: come se, quelle donne, si fossero vincolate a tacere la voglia che avevano di abbattere l'armatura ancestrale creata per modellarle, secondo consolidati luoghi comuni, sconfitte non già dalle molteplici avversità, ma dalle incrostazioni delle consuetudini arcaiche; additate a modello – sicut lari custodes – quando sottomesse e operanti; vituperate quando, ancorchè timidamente, ribelli al potere tutto maschile e a quella tradizione declinata solo grammaticalmente al femminile.

Senza scomodare la semiologia,
penso a quelle donne, nubili, che non avevano mai trovato il coraggio (o erano incappate nella incolpevole ritrosia o nella grama sfortuna) d'una carezza d'uomo, destinate a finir così, vergini come foglie secche, con le mani giunte, in orazioni fastidiosamente bisbigliate, e che, finito il lavoro dei campi e delle stalle, a correre ad aiutare i fratelli sposati; dovevano, poi, ancora affrettarsi in chiesa a scopare, lavare, pulire e lustrare croci e candelabri, candelabri e croci, ricucire cotte e stendardi, tovaglie ed amitti, recitando il solito rosario per la salvezza dei peccatori e conto i blasfemi!

Se queste erano quasi incolpate nel pruriginoso serbatoio delle mormorazioni di non volersi accasare per nascosti difetti, le vedove, di contro, erano sottoposte ad un controllo assillante, secondo la difesa dei valori del passato, stando il loro contegno morale sempre in equilibrio precario, specie se sospettate di frequentazioni maschili.

La costante paura del giudizio altrui attraversava le loro vite.
Occhiate inquisitorie, toccate di gomito ipocritamente inferte a chi stava fisicamente e mentalmente vicino, pesanti allusioni, pettegolezzi salaci, che rasentavano il parossismo della calunnia, viaggiavano spediti nelle viuzze del paese e si intrufolavano di porta in porta, privi di carità cristiana.
A volte bastava un'inezia perchè si incarnasse il diavolo!

Ma la cattiveria del gruppo sociale di appartenenza,
come una fulminea saetta dei tenebrosi temporali estivi, si abbatteva sulla ragazza-madre, considerata, oltre che disgrazia familiare, anche pubblica peccatrice (come “figlio del peccato” sarebbe stato il nascituro, “bastardo” per sempre o per sempre “esposto da ruota”, a seconda), lasciando, per la “buona e brava società” del tempo, il maschio scostumato nella irresponsabile spavalderia delle sue prodezze sessuali.

Ma anche quelle maritate
, non appena diventate madri, quando allattavano i piccoli, dovevano farlo di nascosto; e le donne incinte, dal momento che lasciavano intravvedere il frutto dell'atto sessuale, mancavano di pudore cristiano.
Solo quando il dolore del parto e l'affanno della vita si erano compiuti, quasi furtivamente potevano essere riammesse e introdotte nel tempio, non prima dell'ammissione di colpa e la conseguente benedizione purificatrice da parte del prete ante ianuam ecclesiae!
Come se il far figli, che sempre mandava il Signore, fosse frutto di peccato ed esigenza di redenzione.

Era, per tutte, una storia precipitata dall'infanzia alla vecchiaia nella tramoggia senza indulgenze della vita.
Donne, dal cuore apparentemente indurito, che avrebbero accompagnato i figli quindicenni col fagotto sulle spalle verso un'emigrazione senza confini; scese fino al termine della mulattiera a dir loro addio, col pudore delle madri montanare che, private del conforto di un abbraccio, rigide dentro il loro pesante scialle scuro, avrebbero conservato più trafiggente il ricordo del figlio lontano, invocando il bisogno di quell’affetto troppo presto perduto…

Erano solide spose, madri primitive e selvatiche, spesso vedove anzitempo: figure epiche che avevano fatto del lavoro la loro seconda religione implacabile, preceduta unicamente da quella precettistica del prete, una “mistica del sacrificio”, che le avrebbe volute salve di là solo se nel dolore di qua.

Erano le stesse che avevano dato profondo senso alla vita, smarrendone il sapore edule della stessa: una condizione innervata nel sistema, come quotidianità combattuta, martoriata, predestinata alla fatica; già vecchie e logore a trent'anni, chine sotto i neri sacchi di carbone o sotto i pesanti carichi di fieno; che si poggiavano sugli sbalzi della montagna e, non avendo più la forza per andare avanti, dovevano farlo, docili e resistenti, al pari della mula di famiglia...

L'uomo si maritava anche per aggiungere queste due poderose braccia alle proprie e poter ripartire il lavoro.
La stessa giovane sposa, con la sua partenza, alleggerendo il nutrito carico familiare di provenienza, lavorava, nel nuovo nucleo, anche se incinta e a par d'uomo, con la speranza che il frutto dell'unione coniugale fosse un maschio.
In tal caso scendeva in quella casa la benedizione divina per l'attesa sicura forza-lavoro; al contrario, se femmina, sarebbe stata fonte, se non di malcelato fastidio del capofamiglia, di sicura preoccupazione per entrambi.

Lavoravano, le donne, fino quando la vecchiaia tingeva loro i capelli di neve.

In questo spalleggiare il capofamiglia, in totale e operosa obbedienza, la donna contadina, di fatto, pur non avendone il comando, emergeva nell'organizzazione delle attività di sussistenza.
Sarebbe stato suo compito, come “masséra”, l’ardua impresa di far quadrare i conti della “roba” prodotta e consumata, del venduto e dell'acquistato, dispiegando parsimoniosa attenzione ad ogni genere di minuzia, riciclando abiti frusti e pane stantìo, zoccoli e calzettoni, indumenti di lana per grandi e piccini: il tutto, lavoro della stalla e dei campi compreso, non poteva portare che ad un dato positivo, di intima soddisfazione, essendo il risultato di un ben sopportato baratto con la sua individualità e libertà.

Accettare (a volte subire) esclusioni nella struttura gerarchica
faceva parte del suo essere organizzatrice silenziosamente operosa dei dettati altrui, salvo riconquistare assoluti e magici poteri nel rivoltar la terra con la zappa, nel penetrarla con la vanga, nell'affidarle il seme in attesa del fertile battesimo delle piogge primaverili, nel raccogliere i frutti, recuperando il pulsare della circolarità della vita, dal concepimento alla morte, come appagante privilegio di femmina viva, prodigiosa, unica: mito della primigenia dea madre dai turgidi seni.

Aggiungeva, poi, le incombenze più portanti
dell'educazione della prole e, non ultima, quella dell'ingentilimento dello scarno arredo abitativo con pizzi e ricami, vestiti e tovaglie, coperte e lenzuola: multiple attività, rese senza condizioni, affrontate in ogni occasione con una capacità di adattamento, uno spirito di sacrificio e di resistenza fisica che rendeva il suo “fare” una insostituibile pratica esistenziale.

E non era un “fare” da poco
(soprattutto - ma era la regola - quando il marito si sarebbe dovuto caricare dei duri pesi stagionali dell'emigrazione) sostituirsi a lui nell'approvvigionarsi della scorta di legna da ardere, nella mungitura, nella fabbricazione dei formaggi, nella manutenzione degli attrezzi, nella battitura e affilatura della falce fienaia, nell'uso di badile e zappa, nell'imbastatura, nel carico e nello scarico della mula e via discorrendo.

Ma i tempi sopraffatti dalle durezze, tra castagne e miseria, iniziavano, per le femmine, già dall'infanzia: tempi poveri con la bambola di legno costruita dal nonno, geniale, intagliando un tenero acero, completata dalla nonna con biondi e sottili pennacchi di canapa alpina per capigliatura e gialli semi di granturco indistintamente per orecchie ed occhi: feticcio e oggetto di culto infantile, senza volto espressivo, come certi idoli primitivi.

Restava poco spazio per giocare quando si aveva a che fare con la raccolta del fieno odoroso, delle rosse patate, delle grosse castagne, delle sonanti noci, o inseguendo una caparbia capra fuggiasca nei controllatissimi germogli dei boschi comunali.
Piccole gerle, minuscoli rastrelli, leggere zappette, falci in miniatura diventavano presto indispensabili strumenti di obbligatorio apprendistato, sostitutivi dei giochi improduttivi e di spreco delle società più tecnicamente evolute.

E la scuola?
Era spesso un sistema disomogeneo, partorito dalla difficoltà di frequenza obbligata, superata dalle rigide consegne paterne dietro lo scampanellare delle greggi e nessun compito da presentare.
Lì, si era quasi tutte assieme in prima in seconda in terza e, in egual modo, sparpagliate sui propri poderi, in un mondo dominato dalla ciclicità della raccolta dei frutti e condizionati dalla loro essenziale materialità.

Poi, ineluttabilmente, fattesi più grandicelle, le bambine apprendevano dalle nonne e dalle madri a imboccare l'impervia strada della femminilità, spesso segreto scrigno di affetti incompiuti e di celate sofferenze, quasi un diario di silenzi nella grande foresta dell'interiorità.
Fidanzamento e matrimonio, quasi d’un soffio, festeggiati in casa con i prodigiosi cibi di una cucina per una volta grassa ed abbondante, nella segreta attesa dell’evento della maternità, mistero intimo e goduto con la consapevole soddisfazione di un prodigio che solo alla donna è concesso.

Il privilegio si ripeteva più volte
e piccole esistenze, dagli occhi furbi e scintillanti, si infilavano attorno alla tavola apparecchiata e chiassosa, per essere ogni giorno motivo di sofferta e segreta gioia, per genitori, contadini montanari, che covavano l’intima speranza di transumanza sociale per almeno un loro figlio professore di città e, magari, una nipote avvocato: un sogno da far avverare, un secco colpo d’ala, un sicuro riscatto per un mondo contadino e femminile in particolare, messo ai margini dall’ufficialità della storia.



Commenti:
ID66188 - 16/05/2016 16:37:49 - (lz) - Contributo conoscitivo di qualità.

Straordinario saggio che ci fornisce un interessante spaccato storico sociale della condizione femminile in essere fino a pochi decenni fa, scandagliata con intelligenza e profondità in tutti i suoi aspetti. Un rinvio,penso per molti di noi, ad immagini e ricordi relegati nell'archivio del nostro vissuto riguardante il tratto finale di quel tempo.

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