24 Dicembre 2016, 15.49
Natale 2016

Il fiore del Don

di Paolo Catterina

Si era dopo la metà di dicembre. Un dicembre gelido e fosco che alternava nebbie e gelate in un susseguirsi senza pace. Le strade e i campi erano solcati da bianche rughe in un’atmosfera d’altri tempi...


...Una mattina, sarà stato giusto verso la vigilia del Natale, scorsi un ometto intento a grattare nella nuda terra di quello che sembrava uno scampolo d’orto o di giardino.
Possibile che a qualcuno passi per la testa di piantare qualcosa di questa stagione?
Pensai questo, ma più mi avvicinavo e più il fare pacato e serio dell’uomo mi incuriosiva. Pareva tutt’altro che un eccentrico intento in una operazione bizzarra.

Conoscevo, per altro, il signor Mario, come una buona persona, mite e riservata, che sapeva fare tante cose e che aveva avuto una vita intensa e tribolata.
- Ché ‘mpiàntel de chèsta stagiù, siòr Mario.
- Empiànte el fiùr de Rùssia. El vegnarà a fiurì a la metà de zenér.

Rimasi sorpreso e quasi sorridevo da questa che sembrava una stranezza, eppure le parole di Mario uscivano senza ilarità o compiacimento e nemmeno parevano celare una stramberia.
Capì il mio stupore e con un sorriso che preludeva ad una gran voglia di parlare si rivolse a me con quel rispetto pudico degli anziani che temono di importunare: “Ghét làze de scultà ona stòria?”.

Accolsi di buon grado quell’invito
che voleva forse rendere partecipe il mondo intero più che la mia persone di quel fiore di Russia, piantato a metà dicembre e che doveva fiorire a gennaio, quando anche i semi più resistenti si nascondono a cercare quel poco di tepore nel terreno.
Dietro un bicchiere invitante di vin brulé prese l’abbrivio di un racconto pacato, quasi spensierato, ma la voce si faceva sempre più roca e i solchi della fronte più incavati.

Ho ancora in mente tutti i particolari – iniziò – del giorno che siamo partiti per la caserma che mi avrebbe preparato alla guerra, sembrava a tutti quasi un viaggio di piacere. Vedevamo cose nuove e i nostri vent’anni non facevano sentire né fatica né apprensione.
Non eravamo lontani da casa e vedevamo il lago, eravamo a Bogliaco. Anche la vita di Caserma non era stata così male. Erano faticose le marce nella Valvestino ma i paesaggi mi riempivano gli occhi che avevano visto poche cose fuori dal paese.
La durezza della preparazione militare e dell’alloggiamento, povero e poco pulito, mi sembravano poca cosa pensando a mio fratello che aveva sulle spalle la guerra in Francia e un inverno sulle montagne dell’Albania.
Lui era uno del “Vestone”, io ero stato destinato al “Valchiese”. Sono nomi che anche allora si pronunciavano con rispetto e con onore. Portavano con loro eroismi e dolori che in tutte le famiglie si raccontavano da padre in figlio.

A Torino, poi, ero di stanza nel III° Reggimento Alpini, sapevamo bene che quello era un passaggio per la guerra, quella vera, e l’impegno nell’addestramento era grande.
Capitava di marciare dal pomeriggio fino alle 4 di notte, ininterrottamente, cinquanta minuti di marcia e dieci di pausa. Poi, prima dell’alba, ci lasciavano dormire per terra.
Ricordo ancora, quel mese di luglio, tra i boschi di castagne, quando ci davano l’ordine di fermarci e, ancora senza rancio, ci lasciavamo andare ad un sonno pesante e liberatorio. Al mattino, poi, via di nuovo nei boschi, in montagna... erano le manovre di guerra.
Ma la guerra... quella è un’altra cosa...

Un giorno arrivarono anche i generali. Zaino affardellato, 48 chili più le cassette delle munizioni, si marciava anche nell’erba alta, fradicia. Dopo un percorso estenuante iniziò la manovra con l’artiglieria. Ad un certo punto il bosco si incendiò di colpo: i colpi di un mortaio erano finiti in una pineta che aveva preso fuoco. Ci volle un bel po’ prima di riuscire a spegnere il focolaio.
Ero il più giovane della compagnia ma non avevo paura.
Ma la guerra... quella è un’altra cosa...

Alla fine di luglio arrivò l’ordine. Partenza.
Si passa anche da Brescia; è una gioia poter vedere anche solo per qualche istante il papà e i famigliari.
Alla stazione di Brescia avevo il cuore in gola, mi dissero che il treno si sarebbe fermato sul binario morto e avremmo potuto vedere i parenti. La contentezza mi assaliva e non vedevo l’ora.
Invece, giunti alla stazione, il treno rallentò, fece una manovra ma poi ripartì senza indugi. Non capivo. Vidi da lontano il papà, era venuto a portarmi una borsa ma tutta la stazione ribolliva di gente, volavano spintoni e il treno stava ripartendo sferragliando lentamente. Rimasi male e una sensazione di tristezza mi assalì come per un presagio fosco.

Nel nostro scompartimento giunse solo un fiasco di vino, l’unico raggio di sole in una estate che sapeva già d’autunno. Non sapevamo per dove, ma sapevamo che la nostra destinazione era la guerra.
Un senso di angoscia profondo ci prendeva la gola. Qualcuno pianse per tutto il viaggio. Non un viaggio qualunque: quattordici giorni di un viaggio verso la guerra, senza conoscere la destinazione.
Capivamo che si passava dalla Germania per via della lingua di quelle giovani ragazze procaci e allegre che ci portavano un po’ di tè. Poi i paesi diventavano di un verde più cupo, colline ondulate si alternavano a foreste fitte.

In Polonia, a Varsavia, percepimmo per la prima volta anche con gli occhi, la guerra: case mitragliate, macerie, carri ribaltati, vagoni devastati e bruciati. Mi domandavo: come è stato possibile, con quante bombe e cannoni avranno fatto tutte queste devastazioni. Mi sorprendeva la potenza di fuoco che doveva essersi scatenate per causare tanti danni.

L’11 agosto arrivammo a Stalino. Prima destinazione. Solo adesso sappiamo: il nemico sono i russi.
Prime regole tassative: proibito cambiarsi, turni serrati di guardia e, occhio attento alle mine. Ci trasferiamo di notte, attraversando boschi di pini.
Cominciammo a capire che i Russi attaccavano i depositi di munizioni, sembravano evitare ogni forma di scontro diretto. Si marciava ogni giorno, almeno 30 chilometri in mezzo ad una polvere nera sollevata da uomini e muli che avvolgeva tutto e tutti. Eravamo sempre sporchi e neri perché difficilmente trovavamo acqua per lavarci, dormivamo nelle tende solo a notte fatta, nei boschi di roveri.

Ci avvicinammo così al fronte. Ma prima attraversammo il fiume Donetsk: fu una fatica da tregenda, un giorno intero in mezzo ad un guado di ménadèl dove sprofondavamo facendo un passo avanti e uno indietro.
In quei giorni di ansia, fatica e incertezza ma ancora di speranza in un futuro che non immaginavamo, i russi ci apparivano buona gente. Del resto si trovavano solo donne e bambini, i villaggi erano diversi da questi nostri paesi ma la vita non era così diversa, i gesti e gli sguardi di quei vecchi, delle donne e dei bambini erano quelli di ogni terra del mondo. Ma l’atmosfera della guerra avvolgeva tutto come in una fuliggine senza tempo.

L’appuntamento con la paura arriva senza preavviso
.
Un mattino troviamo dei camion ad attenderci. Veniamo smistati e con i materiali caricati per un nuovo trasferimento.
In breve scoppia l’inferno: arrivano aerei che sganciano bombe ovunque. Tuoni e scoppi che lacerano le orecchie. Fumo e fiamme che sconquassano ogni cosa.
Solo in due camion arriviamo a destinazione...
Ma erano aerei alleati, tedeschi, che per errore avevano bombardato il nostro convoglio, il convoglio degli alpini italiani!!
Gli autisti si rifiutano di ritornare e di proseguire nei viaggi di trasferimento. Il terrore di quelle scene è indescrivibile. Piantano i camion dove sono e non vogliono ritornare su quella strada.
Vedo arrivare un sergente rabbioso che estrae la pistola e sbraitando minaccia di ammazzarli.
Ma che guerra è questa...

Siamo arrivati in prossimità della prima linea. Incontriamo il 5° Reggimento Novara, un reggimento glorioso... già decimato.
Ci insegnano a scavare delle buche. Sono le nostre nuove abitazioni.
E poi mi mettono di vedetta. Che paura!!! Piantato sul rialzo di un nido di formiche tenevo gli occhi aperti spalancati ma avevo il cuore che batteva senza sosta. Non capivo cosa poteva sbucare da ogni pianta, da ogni rialzo del terreno, non avevo pace. Le guardie erano disposte ogni cinquanta metri. Ad un certo punto sento la sentinella dopo di me che prende a sparare. In un attimo ci ritiriamo al riparo. Era una scorribanda dei russi, non ne avevo coscienza ma era il primo attacco cui assistevo.
La prima di molte, troppe, azioni di guerra...

L’indomani ci sarà un attacco, mi dicono. Arriva un ufficiale tedesco che ci ispeziona. Scuote la testa vedendo i nostri fucili modello ’91. Al mattino si parte. Ci aspettano gli aerei e i carri armati, dicono, ma questi non arrivano.
Non riuscirò mai a darmi spiegazione di cosa successe. Forse era l’orologio del nostro capitano che correva troppo, o forse fu solo un malinteso per le troppe lingue, italiano, tedesco, rumeno, ungherese, ma la corsa della nostra compagnia in quel campo di grano pronto per la mietitura fu una carneficina.
Non sento le gambe! Il nostro mitragliere è a terra ferito che grida. Dobbiamo lasciarlo a terra, ci dicono. I compagni mi cadono a destra e a sinistra.
L’attacco prosegue incurante di tutto. E’ come un sogno, un brutto sogno. La sete ci arde, la borraccia di caffè amaro, qualche fetta di limone e la pagnotta ordinaria finiscono in un attimo.

Mi sentivo solo, non ritrovavo più nessuno dei miei, in mezzo ad un fumo nero e acre e a quegli spari che continuavano, continuavano...
Anche il tenente è morto. Scorgo una barella che porta rapida il capitano ferito, vedo chiaramente quando salta per aria.
Stiamo giù con la testa nei ripari del terreno. Ascolto i consigli del Bruno, lui è reduce d’Albania, sa bene come è. “Stà zò co ‘l cò. Ché i ga brüza”.

Poi, lo chiamo e non mi risponde. Ha una pallottola nell’arcata della fronte. Anche l’altro amico di Sabbio Chiese che ho intravisto muore a breve distanza. Salto in una buca e investo un soldato russo, giovane, forse non ha ancora diciotto anni, è intontito ma porta l’elemetto di un italiano. Come per riflesso lo scuoto con un ceffone e solo allora si riscuote. Intorno ce ne sono altri sette o otto, tutti soldati russi che si fingono morti.
Senza esitazione li facciamo nostri prigionieri. Ma arrivano anche i tedeschi.
Prima li costringono a insegnare loro come azionare un piccolo cannone di fabbricazione russa che hanno trovato e che non sanno usare, poi senza troppi scrupoli li fanno inginocchiare e fanno fuoco.
Erano tutti giovani. Tra i 17 e i 20 anni. Io ne avevo 19.

Ci ritroviamo a fianco di una compagnia tedesca. C’è un ufficiale che sta sopra tutti con il cannocchiale e indica dove puntare il cannone. D’improvviso arriva un sibilo e una scheggia che gli porta via di netto una gamba.
Sento anch’io una punta di calore al collo. Un frammento di scheggia mi colpisce ma la ferita è leggera.
Arriva la sera. Sento tutta la stanchezza e la paura che mi prendono senza resistenza. Ci ritroviamo in due, io e Calcari. Che facciamo?
I tedeschi si sono ritirati. Davanti a noi solo ora vediamo una pianura immensa, senza fine.

Quando ormai le prime ombre della sera sono calate sentiamo parlare ma non riusciamo a individuare la lingua. Saranno russi o tedeschi?
Poi, decisi, usciamo dalla nostra buca col mitra spianato: sono tedeschi. Non capiamo niente, comunque. Ma ripartiamo insieme a loro. A quel punto mi rendo conto di avere dimenticato una cosa importante: il badile. Senza di quello non si va da nessuna parte.
Ritorno sui miei passi, con l’angoscia nel petto. Ma non trovo più il badile. E non trovo più nemmeno Calcari e i tedeschi.
Cammino velocemente ma non vedo nessuno. Mi ritrovo di notte in un bosco di betulle. Trovo un riparo alla meglio e cerco di accendere una sigaretta ma non ho i fiammiferi. Pazienza.
Al mattino, quando comincia ad albeggiare scorgo un pagliaio e subito sento a parlare russo. Ero a pochi passi da una postazione russa di mortai.
Mi allontano velocemente e guardingo. Ho una sete che brucio.

Sulla strada mi ritrovo due soldati russi morti. Hanno con loro borracce italiane dalle quali mi disseto. Poi cammino, cammino.
Arrivo in prossimità della linea di fuoco e quasi scambio i tedeschi per russi. Dove sono gli italiani? Grido da ogni parte ma nessuno mi risponde.
Poi, finalmente, scorgo un portaferiti italiano. Dov’è la compagnia? Non lo so.
Cerco ovunque.
Dopo una giornata estenuante mi ricongiungo. Mi comunicano che il sergente Fiorani mi ha già dato per disperso. Poi vengo a sapere che siamo rimasti in 45. Eravamo 210.
In seguito, dopo altri combattimenti posso aspirare ad un breve periodo di riposo. Ma mi mandano ancora più vicino alla linea.
E’ qui che mi trovo a pattugliare la terra di nessuno. Dove né italiani né russi osano sostare a lungo. Qui mi dicono che chi vede per primo spara. O me o loro.

Sono ai comandi di un ufficiale di Brescia, il tenente Bonardi.
Nonostante questo mi becco una punizione per un malinteso. Solo per un malinteso. Ma è una punizione vera. Mi mandano di pattuglia dove nessuno vuole andare.
Non lontano dalla postazione, nella terra di nessuno c’è una casa.
Sembra che ci siano delle galline, un vero tesoro. Il problema è che qui si riforniscono anche i russi.
La notte ci avviciniamo circospetti. I russi ci hanno preceduto.
Due soldati sono già dentro e uno è fuori a fare da guardia.
Con un’azione fulminea, dopo averli aspettati a lungo, li sorprendiamo. Si arrendono subito, alzate le mani ci consegnano le galline. Poi li facciamo prigionieri ma il nostro vero obiettivo erano le galline.

Una notte siamo svegliati dagli allarmi. Sono i russi che hanno attaccato partendo dalla linea. Il 5° Novara, il glorioso, si disperde. Anche noi di rincalzo siamo caricati sui camion. Sulla strada, trincerati dietro un pagliaio scorgiamo un manipolo di russi che preparano le armi. Una volta scaricata l’artiglieria pesante li costringiamo a lasciare il presidio.
Dopo l’arretramento cambiamo fronte. Sempre a piedi. Eppure i tedeschi ci avevano promesso i camion, invece continuiamo a marciare. Andiamo a dare il cambio ad un battaglione di ungheresi.

Ci rendiamo conto che siamo l’esercito più malmesso e scalcinato su questo fronte.
Anche gli ungheresi che ci passano a fianco, così come i rumeni, che sembrano tutti zingari, sono equipaggiati meglio di noi. Le loro armi sono migliori ed anche il loro abbigliamento. Non parliamo dei tedeschi.
Eppure noi alpini, noi italiani, siamo lì. A noi tocca raccogliere i bossoli vuoti nella neve, per poi ricaricarli.
Ma resistiamo a ogni fatica, siamo diventati duri come i nostri muli. Facciamo valere i nostri Breda, il mortaio da ’81, il mortaio da ’45, quello che chiamavamo “la rana”.

Siamo sul Don, il grande fiume che in breve comincia a ghiacciare.
I russi prendono a fare incursioni con una rapidità che ci sorprende. Hanno le tute bianche che li rendono invisibili nella neve. Falcidiano le nostre sentinelle. Fare la guardia è un incubo.
L’inverno diventa tremendo. Il freddo ci investe e non ci lascia tregua.
Eppure i ripari, le buche, sono preparati con cura. Abbiamo anche delle stufe per riscaldarci. Ma il gelo della paura rende la temperatura insopportabile. Ad ogni ora del giorno e della notte.

Trascorriamo un Natale discreto
. Non accade nulla e il pensiero del ritorno a casa ci mette le ali ma la realtà è avvolta da una atmosfera pesante. Quanti chilometri dovremo fare. Quanti combattimenti?
Anche le giornate e le azioni più normali non ci danno tregua.
Vedo a qualche decina di metri un ufficiale che cerca di ritrarre un cannoncino che si è incastrato. Deve essere posizionato.
Queste cose si fanno quando tutto è tranquillo. Vedo che armeggia con vigore, si sforza. All’improvviso sono investito dal fumo di uno scoppio. E’ saltato su una mina.

Arriva il 28 dicembre, tra due giorni faccio i vent’anni.
La notte dobbiamo uscire di pattuglia. Sentiamo i russi vicinissimi. D’un tratto ce li troviamo alle spalle, davanti abbiamo una linea di alti reticolati. Siamo circondati. Anche se sono tra i più giovani mi sento esperto di queste situazioni. Dico che dobbiamo rientrare rapidamente, o non avremo vie d’uscita.
Il tenente digrigna i denti. Vuole continuare.

Prima dell’alba siamo rientrati, solo in due.
Tra gli scoppi e gli spari ho sentito il tenente che gridava, urla che laceravano la notte e gelavano il sangue. Poi hanno cessato d’improvviso singulto sinistro. E’ stato sgozzato. Non ho mai saputo se dai russi.
Sono rientrato con la paura nelle ossa. Una paura che non avevo ancora provato. Ma ho capito che alla paura non avrei mai fatto l’abitudine.
Dopo qualche giorno sento che si studia un colpo di mano per prendere una postazione di russi che sentiamo a breve distanza e che ci martella con incursioni e colpi di mano notturni.

Rancio speciale, doppia razione di sigarette; la cosa ci rallegra ma aleggia un’aria strana e nessuno ha voglia di ridere. Il cappellano vuole confessarci. Anche il tenente tiene un discorso breve e secco, un discorso da cui si intuisce la necessità di darci la carica e di far palesare l’ombra di un ritorno a casa, ma ci sentiamo ancora troppo lontano.
Quella notte abbiamo anche noi la tuta bianca. Quasi non ci vediamo l’un l’altro. Per l’elmetto abbiamo rimediato colorandolo di bianco con del gesso...
Con la luna vediamo solo le nostre ombre che si muovono sulla neve gelata e sul fiume di ghiaccio. Arriviamo dall’altra parte del fiume e non sappiamo se siamo già sulla riva o ancora nel letto del fiume che arriva una scarica. Quasi non sento i colpi, sento la neve che mi schizza in faccia dai colpi che cadono intorno. Sono dei russi, stavano mangiando quando ci hanno visto, ma come ci mettiamo al riparo e in posizione scappano via veloci tra la neve.

Scatta subito l’allarme nelle file russe, la sorpresa è fallita. Ora i mortai fiondano colpi che spaccano il ghiaccio. Quando rientriamo, appena in tempo per vedere numerose le crepe allargarsi e lasciare affiorare le sinistre acque del grande fiume. 
Siamo tutti sani e salvi ma penso ancora che alla paura non farò più l’abitudine.

E qui Mario si ferma, il racconto lanciato sembra rallentarsi.

Anche i solchi delle rughe si addolciscono e lo sguardo si fa più intenso. Non è più il momento delle azioni. Quelle da paura. Il racconto scivola indietro.
E’ stato quella notte, riprende, in quella azione da cui ci aspettavamo di avere qualche risultato, che ho capito quanto sarebbe stato duro e incerto il cammino per ritornare a casa.
Dopo avere sorpreso i russi siamo entrati in una piccola isba. Era ancora calda e sembrava quasi accogliente. Eravamo convinti di trovare qualcosa da mangiare o da riportare. Invece niente.

Notai solo un piccolo tascapane appeso ad una parete di legno.
Credetti che ci fosse il tabacco e così lo misi sotto la tuta e lo riportai con me.
Erano gli ultimi giorni, il mese era gennaio ma ormai non contava più nulla. Il freddo era uguale. Le tormente, la neve. I russi.
Eravamo accerchiati, ormai lo sapevamo anche noi soldati. I russi erano davanti ma erano arrivati alle nostre spalle, 200 chilometri dietro di noi. L’ordine di ritirarci, l’ordine di Hitler, l’unico che contava, non arrivava più. Gli Ungheresi, loro, se ne erano già andati.

Le cose precipitano ogni giorno.
Il 17 gennaio rancio speciale: pastasciutta abbondante, tre volte. Ma poi sono 35 chilometri di marcia. Nella neve, al freddo. Per arrivare a Bogonoe, poco dietro la linea, dove c’erano i magazzini della divisione. Sono ancora ben forniti, soprattutto formaggio e cognac. Ma io mi riempio di formaggio. Non faccio in tempo a bearmi di quella pausa, alle due di notte arriva l’allarme. Dobbiamo scappare via.
Subito.
Via, in marcia, verso un altro villaggio. Piccoli gruppi di case di legno, tutti uguali. E i dintorni pure sono uguali, con le colline infinite spianate dalla neve e macchiate dai boschi.
Incontriamo un tedesco, è mezzo morto, era stato fatto prigioniero dai russi ma era scappato. Poi vedo un alpino di Vestone, su una slitta ricolma di viveri. Era ubriaco di cognac. L’ho rivisto qualche giorno dopo, steso nella neve.

Arrivati ad un villaggio una sera non riesco a trovare posto. Le poche isbe sono tutte occupate. Con altri ho dovuto dormire appena fuori. Ricordo come abbiamo dovuto colare la neve per farci un riparo.
Stavamo ripiegando per raggiungere il grosso ma in mezzo alla distesa di neve, con le nostre divise grigioverdi ci vedevano a chilometri di distanza. Per dormire dovevamo raggiungere qualche villaggio dopo che di giorno si marciava, continuamente, incessantemente.

Vedevo i muli che, come gli uomini, morivano. Ci era proibita ogni concessione alla pietà. Né per i muli né per gli uomini.
Quando si arrivava ad un villaggio e si vedevano case dove poter passare la notte c’era l’ordine di far fuori tutti. Ma come si fa, pensavo io. Anche i più duri di noi non sapevano uccidere gente inerme.
Ma tra i soldati tedeschi vedevo una rabbia negli occhi che non ho mai visto in nessuno. Era il gelo del cuore a premere il grilletto. Ho visto cose che...

Si interrompe Mario, non ha bisogno di riflettere per ricordare.

Gli occhi si abbassano gravemente
e le mani, quelle mani robuste di un ardito della prima linea sembrano piegarsi dolcemente a voler rendere la storia, la sua, quella della sua vita, meno vera... meno crudele.
Entro in una casa, dice, col mitra spianato, sparando. La prima linea mi aveva insegnato così. In breve facciamo uscire tutti. Ci sono 9 uomini insieme alle donne e ai bambini.

Gli ordini non lasciavano scampo. Gli uomini devono essere uccisi, tutti.
Sono io ad avere il mitragliatore ma lo cedo al tenente. Io no...
Anche lui non ha il coraggio. Però dobbiamo farli prigionieri e consegnare ai tedeschi. Già, consegnare ai tedeschi...
Una donna corre verso di me, si inginocchia. Mi implora, capisco che ha cinque figli e tra gli uomini c’è il marito, forse anche qualche figlio. Mi dice che ha del pane, si sgola a chiedermi di lasciargli in vita il marito. Non so cosa dire. Dico che li portiamo a verificare i documenti. “Papieren”, “Documenti”. Sembra quasi che mi creda, che si fidi di me.

E sono io che ho l’ordine di portarli dai tedeschi che stazionano da un’altra parte. Li accompagno col mitra penzolante, ho negli occhi il pianto della donna. La rivedo inginocchiata.
Li sto accompagnando lasciandoli andare avanti e comincio a sussurrare “Scapì... scapì giü a la òlta”, “Vìa, vìa, giü a la òlta”, ma non capiscono. “Nì vià, Per la Madòna!.Vià, vià scapì. scapì...”, adesso quasi sto gridando.
Ma non capiscono. Hanno paura e io ho in mano un mitra.
All’improvviso vedo arrivare sulla strada una motocarrozzetta tedesca. Si ferma di colpo. Sento appena un comando secco. Tre raffiche e sono tutti sterminati.

Non capisco. Non capisco.
Rivedo la donna inginocchiata che mi ha guardato negli occhi e che ha visto nei miei una speranza.
Non riesco più a cancellarla dalla mia vista, neanche se chiudo gli occhi!
Adesso cosa penserà. Cosa avrà pensato... come avrà sofferto... che dolore lacerante avrà provato...

Si ferma Mario. Dice che ancora oggi prova dolore nel rivedere tra le pieghe della memoria quella scena e non sa darsi pace.
Ancora oggi si ritrova a dire: cosa avrà pensato?

In tutti i paesi vedevo donne e bambini,
isbe, e marciando nel gelo mi chiedevo cosa avesse pensato quella donna russa.
Ormai eravamo vicini al raggruppamento nella sacca di Nikolajewka. I russi continuavano a tagliare la colonna.
Dovevamo uscire o saremmo rimasti là per sempre.
Ci sono morti ovunque, avanti e indietro, qualcuno comincia a parlare di resa.

Invece arrivano come schiocchi di una frusta le parole infiammate del generale Reverberi, ritto, in piedi, su un carro armato tedesco.
E dopo di lui un ufficiale ci urla “Avanti Valchiese, Avanti Vestone!!” Sono urla di disperazione più che di comando ma sentiamo il calore della casa, il calore della nostra Patria. E’ l’ultimo combattimento ci garantisce il generale, quello di Nikolajewka. Si parte alla disperata. E vediamo che i russi ripiegano.

Quanti morti, quanti feriti. Mi rivedo stanco stremato, come intontito da colpi, spari, fumo, neve, fame... voglia di ritornare a casa.
Sembra che alla fine siamo fuori dalla sacca. Siamo contenti.
Appena arrivati in un paesotto troviamo persino del miele.
Qualcuno si riempie a più non posso. Qualcuno muore anche, insieme al miele ha mangiato la cera...
Comunque quella sera siamo contenti. Siamo fuori dalla sacca e ormai ci hanno detto che quello era l’ultimo combattimento.
Quella sera ci togliamo persino le scarpe. Provai un sollievo...
Ma all’improvviso arriva l’allarme, ci sono i russi con l’artiglieria. E le scarpe non entrano più...
Non c’è modo di farle entrare, i piedi sono gonfi, fanno impressione tanto sono grossi. E fuori ci sono i russi.
Le granate fanno fuori tutti i nostri muli. E continua, il bombardamento continua dalle 11 di sera fino alla mattina quando, finalmente, arrivano dei rinforzi.
Quello stesso giorno mi fanno partire in testa alla colonna. Siamo in pochi, un drappello ma dopo qualche ora di cammino tra colline e boschi rimaniamo soli. Proseguiamo.

D’un tratto ci pare di udire un rombo. Il rumore di un motore.
Stiamo giù e vediamo 3 carri armati russi che vengono verso di noi. Sono enormi. Dio come sono grossi quei carri. Quando passano fanno schizzare la neve fradicia all’altezza delle case. Si muovono potenti con dei cingolati che scolpiscono anche il ghiaccio.
E vengono verso di noi. Perché vengono verso di noi?
Fanno un ampio semicerchio, uno è davanti e gli altri lo seguono.
Arrivano proprio da noi.
Ci hanno visto.
Sono schiacciato a terra che quasi non respiro. Sento il tumulto del cuore e ancora ripenso che alla paura non farò mai l’abitudine. Mai... mai. Mai più.
Il carro davanti avanza inesorabile. Sto pregando concitato.
“Màma, Bubà”. Invoco piano e vedo la canna del carro che, cigolando, lentamente... si abbassa.
Poi d’un tratto si rialza e raddrizza. Il carro gira sui cingoli e inverte la marcia sferragliando e facendo ruggire il potente motore.
Siamo salvi. Ci rialziamo e siamo salvi. Ancora oggi, quando ci penso, riprovo lo stesso stordimento e la sensazione come di ricevere una nuova vita dopo il terrore agghiacciante, e fatico ad abituarmi.
E’ ancora un pensiero vicino, che non mi abbandonerà mai più.
Vedo ancora lo stesso panorama, con gli occhi lontani, a guardare le sagome lontane dei carri e il cielo sull’orizzonte sterminato che si apre e si alza, che non mi è più pesante.

Ripartiamo e, ancora marce,
marce, e freddo, e neve, e fame, fino a qualche casa. Forse un giorno potremo vedere un treno...
Ci ritiriamo in un’atmosfera di disperazione. Poco alla volta passa lo stordimento dei combattimenti e ci coglie uno sconforto indescrivibile.
Ci sono anch’io quando il tenente Signorini stramazza a terra.
Aveva promesso alle madri di riportare a casa i loro figli... e ripenso che anch’io avevo rassicurato la donna russa...
Arriva infine il giorno che ci caricano su un treno. Il treno dei sogni.
Ma il premio che mi consegna sono due anni di lunga prigionia: in Polonia, a Katowice e poi a Essen. E sorride, oggi il premio è la mia pensione di guerra: 1 euro al giorno...

Si ferma Mario, non è stanco, anzi, avrebbe da raccontare mille altre cose, solo ha paura di importunare.
Ma, Mario, chiedo, perché quel fiore? Perché piantare quel fiore in pieno inverno?

Quello è il fiore del Don. Nasce dai semi del tascapane che ho trovato. Non c’era il tabacco, c’erano dei semi. Da quando sono ritornato in Italia ogni anno pianto uno di quei semi e alla fine di gennaio, fanno spuntare un piccolo fiore bianco. Sfida il gelo e il freddo. Sembra che non abbia paura di niente. Continuerò a piantarlo finché potrò arrivare nell’angolo del mio orto.

Siamo di nuovo nell’orto, a versare un poco di acqua su quel seme.
Saluto Mario intento a calcare la terra.
A gennaio rivedrà ancora il fiore bianco e questo basterà a placare il tumulto dei ricordi.
Goditi il fiore del Don, Mario, con l’umiltà dei grandi della Storia e con la serenità degli uomini forti.
 
Mario Danieli mi ha raccontato la “Russia” una domenica di novembre del 2008 in occasione di un’indimenticabile conversazione-intervista. Con la pacatezza e con la lucidità di chi ha serbato ricordi gelosamente nello scrigno dell’anima. Solo da poco aveva riferito ai famigliari di quelle vicende fino ad allora troppo dolorose per essere raccontate.
L’epilogo della sua guerra ha luogo pochi anni prima, nell’aula magna della Scuola Nikolajewka di Brescia. Quella scuola che è un prezioso servizio ai disabili voluta e costruita dagli alpini bresciani anche per onorare i sacrifici della dolorosa guerra sul Don.
I dirigenti alpini avevano invitato una delegazione russa composta da alcuni militari reduci di quella guerra. Il commovente incontro con i reduci alpini aveva fatto vivere momenti intensi suscitando non solo ricordi ma una profonda voglia di pacificazione.
Ad un certo punto fu data la parola ad un ufficiale russo. Con il cappello dalla benca altissima e un medagliere interminabile, i lineamenti vagamente caucasici prese a parlare mentre la traduttrice diffondeva le sue parole ai presenti.
Mario è seduto nelle prime file. Ha sempre lavorato e collaborato volentieri per quella struttura.
Quando il racconto dell’ufficiale russo scivola sulla passata esperienza di comandante carrista in servizio nella zona del Don, Mario ha un sussulto.
Il comandante dice di ricordare bene quella volta che con il suo carro si imbatté in due soldati italiani a terra in una piana innevata. Avrebbe dovuto fare fuoco e sarebbe bastato spingere una leva. Ma aveva pensato che sarebbe stata una crudeltà inutile e così aveva alzato la canna e girato il carro.
Mario rimase pietrificato. Lo sguardo vitreo fisso negli occhi dell’ufficiale carrista. Un’emozione così intensa che lo paralizzava.
Non riuscì, come avrebbe voluto con tutte le sue forze e con l’impeto prorompente della gratitudine, ad alzarsi e correre ad abbracciarlo.
Ogni movimento gli rimase strozzato nel cuore.
Al solo raccontarlo, tuttavia, il bagliore degli occhi inumiditi spandeva una voglia di riconoscenza che avrebbe abbracciato l’umanità intera.
Mario Danieli, alpino del “Valchiese”, classe 1922 è andato avanti il 1 giugno 2010.
 
 Paolo Catterina
 


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