11 Maggio 2020, 09.30
Blog - Genitori e figli

Cambiare modo di vivere per tornare a star bene

di Giuseppe Maiolo

Come usciremo da questa situazione? Cosa cambierà dopo questo forzato distanziamento sociale che non vediamo l’ora di azzerare? Quando ritorneremo alla vita di prima?


Domande che sento ovunque nelle ultime settimane e che mi hanno fatto molti, forse nella speranza che chi si occupa della psiche e dei suoi processi abbia risposte illuminanti e consigli pronto uso. Personalmente non ne ho, tranne una: non ritorneremo (non dovremo ritornare) più a quello che eravamo prima del coronavirus. E per fortuna.

Il verbo “ritornare” non è quello che ci serve.

Abbiamo bisogno di cambiare e trasformare forse tutto, perché l’improvvisa realtà della pandemia, il distanziamento sociale, la lunga prigionia e l’isolamento relazionale hanno modificato ogni cosa della nostra esistenza. In modo particolare hanno mutato profondamente i rapporti tra gli individui.

Dal momento che i contatti tra le persone sono destinati a restare limitati finché il virus non sarà scomparso, ci servirà una nuova riformulazione. Domande come: quanto ci possiamo affidare agli altri e quanto è pericoloso, fino a che punto ci possiamo avvicinare fisicamente e quando potremo tornare ad abbracciarci, ci chiedono di definire nuovamente chi siamo noi e chi è l’altro.

Perché, se ci pensiamo, è ormai lontano quell’estemporaneo sentimento di partecipazione esploso sui balconi all’inizio del lockdown con applausi, canti e entusiasmo collettivo. Quel clima si è dissolto e ora c’è la gran voglia di uscire e sentirsi liberi, l’impazienza di riprendere le abitudini di una volta, il piacere del contatto fisico, e insieme ci sono sentimenti diversi come la paura e il sospetto o la rabbia e l’aggressività per chi non rispetta le regole.

Quando ad esempio qualcuno si avvicina troppo a noi, entriamo in ansia, se non ha la mascherina ci inquietiamo. Ci salutiamo da lontano spesso con una certa diffidenza, quasi che anche da distante lo sguardo possa essere infettivo.

Di sicuro sarà l’allarme prolungato, la lunga angoscia del contagio a segnalare il malessere alimentato dal trauma collettivo, ma così capita di sentire chi dice “Quasi quasi non esco più” pensando alla pericolosità del mondo che potrebbe, stranamente, spingere a stare in casa.

Sintomo di un disagio che si profila all’orizzonte? Può essere. Di certo assomiglia molto al fenomeno dei ritirati sociali, cioè a quanto capita agli adolescenti che si chiudono in una stanza e restano in contatto col mondo attraverso i dispositivi digitali.

È inquietante. Ma ci deve far fare attenzione a cosa sta accadendo per capire il lungo processo di cambiamento che ci aspetta. Una trasformazione epocale che riguarda il piano educativo in grado di modificare non solo i comportamenti ma anche il modo con cui percepiamo l’altro e come sarà possibile sostenere il comune senso di responsabilità che servirà a salvare tutta la collettività.

Abbiamo bisogno di uscire dalla dinamica del “tutti contro tutti” che sembra dominante e sviluppare un processo educativo comune per noi e i nostri figli capace di contenere la competizione e l’agonismo e che miri invece alla cooperazione e alla collaborazione.

Dobbiamo con urgenza aiutare la famiglia e gli educatori, ma come suggerisce Cristina Verrocchio, docente di Psicologia clinica all’Università di Chieti, non con interventi spot sul come e cosa i genitori devono fare, perché i consigli “pronto uso” non servono. Anzi forse aumentano il senso di frustrazione delle famiglie più fragili e in difficoltà che faticano a gestire emozioni e sentimenti e impediscono di cercare aiuto per sé e i figli quando necessario.

Al contrario, c’è bisogno di dare ai genitori strumenti di sostegno, prevenzione e azioni psicologiche adeguate, ben strutturate per mitigare lo stress emotivo che, una recente ricerca dell’Università, rivela essere presente nell’83% degli intervistati.



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