La cruna dell'ago
di Leretico

"È più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli" (Matteo 19:24). Così parlava Gesù riferendosi ad una porta che si apriva in antichità nelle mura di Gerusalemme e si chiamava proprio "la cruna dell'ago".

 
Quando qualche cammello carico di merci giungeva a quella porta, il cammelliere era costretto a scaricare faticosamente l'animale che altrimenti non sarebbe passato attraverso quella strettissima entrata.
La difficoltà del cammello divenne famosa come quella di chi deve liberarsi da pesanti fardelli se vuole ottenere la salvezza.
 
Secondo una semplice e immediata interpretazione, la difficoltà del ricco è quasi disumana nel momento in cui deve liberarsi di ciò che gli impedisce la salvezza, ossia della ricchezza.
Forse potremmo tentare un'altra ermeneutica associando, per estensione, alla ricchezza il potere.
Così facendo le parole di Gesù suonerebbero molto più sottili: è difficile che un uomo potente sia disposto a rinunciare alle sue prerogative, al suo potere appunto, tanto quanto per il cammello evangelico passare per la cruna dell'ago.
 
Scopriamo in questi giorni che per l'uomo ricco e potente è altrettanto difficile accettare la decadenza.
E non è soltanto una questione di cessazione dalla titolarità di una carica, ma anche e soprattutto di progressiva diminuzione di forza, di autorevolezza, di creatività tipiche del più giovane, e potremmo continuare con questo tono sia sul lato fisico che morale.
La decadenza non è solo riferibile alle persone potenti che hanno fatto il loro tempo, ma anche al nostro bel paese a cui, se lo si guarda con gli occhi dei giovani, poco è rimasto di bello.
 
La decadenza è una condizione dell'anima, è fatta di rassegnazione e di sfiducia, di senso di disfacimento, di olezzo di cadavere.
Quando tocca i giovani diventa disperazione, e ci riporta drammaticamente agli anni dell'emigrazione di fine Ottocento e di inizio Novecento.
Come se niente fosse, il teatrino della politica va avanti ogni sera in televisione, cercando di convincerci che c'è qualcosa ancora da difendere, qualcosa da salvaguardare.
Sono tutti presi a giustificare o attaccare la decadenza da senatore di un ultrasettantenne tristemente azzimato e furente, e dimenticano che la vera decadenza, di cui dovrebbero parlare, è quella del sistema sociale, politico ed economico dell'intera nazione.
 
Liberarsi di Berlusconi per via giudiziaria avrà certamente fatto stappare molte bottiglie ma non ci libererà dal berlusconismo.
La polarizzazione che ha fatto da sfondo a questa lotta senza esclusione di colpi, durerà per molto tempo a venire.
L'epilogo mediatico-carnevalesco della dichiarazione di decadenza del senatore Berlusconi nasconderà purtroppo, agli occhi degli elettori di centro destra, il fallimento sociale ed economico della sua politica, la sua comprovata incapacità di pianificare e riformare la struttura dello stato pur avendone avuto larga possibilità negli ultimi vent'anni.
Ancora una volta la propaganda sul "martirio" ritarderà la presa di coscienza su questi fallimenti, ne ritarderà colpevolmente l'elaborazione, la consapevolezza.
 
La decadenza dell'Italia non è solo responsabilità del centro destra, ma anche della sinistra: sempre pronta a scaricare sui cittadini, attraverso tasse su benzina e casa, le colpe della propria mancanza di coraggio riformatore.
Nessuno ha dimenticato D'Alema e la sua scaltra politica di finta opposizione mentre sottobanco condivideva l'affarismo più becero (si legga, per farsene seria  opinione, "Il sottobosco" di Claudio Gatti e Ferruccio Sansa - 2012).
 
Né abbiamo dimenticato le intemperanze dell'ex ministro Visco, passato alla storia per la sua creatività micidiale in fatto di imposizioni fiscali.
È meglio non continuare, l'elenco sarebbe davvero lungo e impietoso e non potrebbe che confermare l'assoluta incapacità genetica della sinistra di capire chi crea veramente ricchezza in Italia, che andrebbe aiutato, rispetto a chi invece questa ricchezza è capace solo di consumarla o di sprecarla, casta politica per prima, burocrazia arrogante per seconda.
 
Il problema allora non sta nelle chiacchiere di questi giorni, ma nella "cruna dell'ago", la porta per la salvezza che si fa sempre più stretta.
Eppure la possibilità di fare qualcosa di incisivo, con l'entrata nell'euro e con la drastica riduzione degli interessi sul debito pubblico, l'abbiamo avuta a suo tempo, ma l'abbiamo gettata alle ortiche.
 
Ed è successo perché fondamentalmente non crediamo negli elementi e nelle idee che fanno civile una nazione.
Non crediamo nella scienza, preferiamo gli astrologi e suoi derivati.
Non crediamo nella formazione, tanto che non investiamo nel modo giusto nella scuola.
Non crediamo nei giovani, abbiamo infatti la classe dirigente più vecchia d'Europa se non del mondo.
Non crediamo nell'etica in politica che consideriamo debolezza, infatti la facciamo gestire a chi è dotato di carisma personale, di cinismo e di opportunismo scambiandoli per capacità di leadership.
Infine, e soprattutto, non crediamo nella comunità che consideriamo come campo da razziare, valendo per noi solo l'eterno egoistico refrain del "tengo famiglia".
 
Se gli italiani hanno queste idee del mondo, non possiamo pretendere che la classe politica sia molto diversa.
Essa è l'espressione diretta dei nostri modelli mentali, effetto non causa dei nostri mali. I nostri rappresentanti cambieranno solo quando cambieremo modo di pensare.

I modelli mentali si creano in gioventù, sono legati strettamente alla formazione scolastica.
Volere il cambiamento di una società significa prima di tutto riformare il luogo e le attività della scuola.
Sfortunatamente una delle istituzioni più bistrattate è proprio quella scolastica, struttura progettata per i professori e non per gli studenti, spesso infestata di mediocri senza arte né parte, carrozzone in cui regna incontrastato il nepotismo, la mancanza di produttività, l'insofferenza per l'innovazione, l'impreparazione alla didattica, dove non si forgiano le nuove leve ma si progettano le loro future frustrazioni e dove quei pochi professori che si impegnano si sentono tutti i giorni presi in giro dai colleghi che sottovoce, insinuando, dicono loro: "ma chi te lo fa fare".
 
Per liberarci di questi fardelli dovremmo allora avere il coraggio di salvare almeno i nostri figli, investendo concretamente sulle generazioni future per cercare di farle passare, almeno loro, per la cruna dell'ago.

Leretico
 
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