I büli Valsabbini del settecento
di Guido Assoni

La triste storia di Giovambattista Bertoli da Lavenone



Rispetto alla città, nel 1700 le valli bresciane costituivano realtà autonome con proprie istituzioni e statuti.
I vari Comunì erano amministrati da consoli liberamente eletti mentre le intere comunità valligiane erano rappresentate da vicari o sindaci generali.

La Valle Sabbia veneta comprendeva i Comuni sulla sponda destra del fiume Chiese, da Sabbio a Bagolino, mentre gli altri appartenevano alla Riviera di Salò, la quale dipendeva da un provveditore di Venezia coadiuvato da un podestà inviato da Brescia.
La Quadra di Montagna della Riviera di Salò comprendeva gli attuali Comuni di Capovalle, Idro, Treviso Bresciano, Provaglio, Vobarno, Roè Volciano, Villanuova, Vallio, Gavardo, Serle e Paitone.

Agli inizi del XVIII secolo divampò implacabile la guerra di successione al trono di Spagna che vide coinvolta l’Europa intera contro la potenza franco-spagnola appoggiata dalla Baviera e dal Piemonte, nemici storici degli imperiali d’Austria.
La Repubblica di Venezia, per non disgustare nessuno, aveva preferito mantenersi in stato di neutralità.

Questo atteggiamento non potè impedire il passaggio sul proprio territorio degli eserciti stranieri in conflitto, cagionando gravi danni ai propri sudditi insofferenti contro le requisizioni e i vettovagliamenti delle truppe.
Anche ai più piccoli Comuni veniva imposta con la forza la consegna di fieno, biade, carri, cavalli e conducenti, di fatto esautorando l’autorità comunale.

Se i cittadini parteggiavano per le potenze che, di volta in volta, avevano il sopravvento, i valsabbini rimanevano fedeli alla Serenissima non disdegnando, con propri messaggeri, di rimarcare ai rettori di Brescia il malcontento per le continue angherie e soprusi dei belligeranti, dichiarandosi pronti a scendere in campo armi alla mano.

Intanto, prendendo vigore dalla debolezza del governo
e dalla presenza di eserciti stranieri, si intensificarono odi e rancori con imprese criminose e spietate vendette.
Le malefatte dei “büli valsabbini”, spesso al soldo di nobili bresciani corrotti, erano all’ordine del giorno.
Gli omicidi erano favoriti anche dall’inerzia degli amministratori veneti della Riviera di Salò e di Brescia, anche loro eticamente non irreprensibili.

Per avere giustizia bisognava sborsare fior di quattrini.

L’uomo onesto era costretto a subire l’altrui prepotenza e, se aveva l’ardire di denunciare il malfattore, spesso subiva le tragiche conseguenze ad opera del reo, una volta scontata la condanna a pena detentiva.
Gli amministratori percepivano dalla Repubblica di Venezia lauti stipendi ma, per essere eletti avevano elargito ingenti somme al provveditore che andavano poi pian piano recuperando con una serie impressionante di sopraffazioni e taglieggiamenti nei confronti dei propri sudditi.

I malfattori che proliferavano in Valle Sabbia
ostentavano armi di ogni sorta, schioppi, archibugi, tromboni, pugnali, scuri.
Di questi ne parla compiutamente il prof. Ugo Vaglia nella sua “Storia della Valle Sabbia”: dal dott. Ascanio Glissenti, tra l’altro valente medico di Vestone, ai quattro fratelli Peri di Gavardo, da Antonio Susi da Sabbio, a Bernardino Cavagnino di Bione, per finire con i fratelli Ippoliti di Vestone.

Ciò che vi voglio raccontare invece è la triste storia di un “bülo di Lavenone” le cui gesta si sono perse con il passare inesorabile del tempo.
La sua vicenda è riassunta in una breve monografia con vignetta xilografica sul frontespizio, pubblicata nel 1757 e contenuta in un vecchio tomo consultabile presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.

Il titolo della monografia è il seguente: “Vera, e distinta relazione della giustizia seguita in Brescia il dì 3.dicembre 1757 contro la persona di Giovambattista Bertoli figlio di Giacomo della terra di Lavenone nella Valsabbia, territorio bresciano, d’anni 26 con la dichiarazione delle sue colpe”.

Questa relazione mette in luce la contrapposizione tra la grandezza della Divina Misericordia nei confronti dei peccatori che si ravvedono dalle loro criminose imprese e l’infinita Giustizia nei confronti di coloro che, abusando della Misericordia d’Iddio, “pertinaci perdurano in commettere scelleratezze, onde poi con deplorabile fine pagano il fio della loro ostinazione”.

Nonostante fosse inquisito dalla Giustizia di Salò
per molti e detestabili eccessi, sempre più baldanzoso, il Bertoli, “frequentemente armato capitava in Idro, villa situata sulla Riviera stessa”.

Un giorno d’estate del 1752, sempre a Idro gli capitò di scorgere il provveditore di Venezia ed il podestà di Brescia i quali discorrevano con il q. Bortolo Vagliani, persona influente di quella località lacustre, sulle misure da attuare al fine di prevenire la dilagante delinquenza valligiana.

Due precisazioni si rendono necessarie prima di proseguire con la descrizione dei fatti.
L’abbreviazione q. davanti ad un nome di persona sta per “quondam” avverbio latino per indicare una persona defunta.
Il fatto poi che il Bertoli fosse sotto stretta sorveglianza dalla Giustizia di Salò sta a significare che la sua attività delinquenziale avesse come epicentro il Comune di Idro facente parte della “Magnifica Patria” ovvero della “Quadra di Montagna” della Riviera di Salò mentre il Comune di Lavenone faceva parte della Valle Sabbia veneta.

Il fitto conciliabolo
tra i Ministri della Giustizia salodiani e il q. Bortolo Vagliani di Idro accrebbe la convinzione nel Bertoli che il Vagliani “con loro si accordasse, e servir li volesse di spia per il di lui fermo” e che “dall’apprensione prodotta da una rea coscienza, e dal timor assalito, stabilì d’assicurare la sua libertà coll’inumano eccidio del Vagliani stesso”.

L’agguato venne pianificato nei minimi particolari il giorno di mercoledì 26 luglio 1752, allorquando, con la scorta di tre compagni armati, partì da Lavenone verso Idro, con malcelati intenti omicidiari.
Bortolo Vagliani, appena uscito dalla Chiesa stava incamminandosi verso la propria abitazione mentre i tre sicari lo stavano attendendo a debita distanza.
Più defilato se ne stava il mandante.

“Fermaronsi costoro su due piedi ad attenderlo, giacchè di niun mal sospettando, verso di loro indirizzavasi; e quando fu giunto in vicinanza, li tre siccarj unitamente calatisi li schioppi, nel proferire l’espressione ‘Chi va là’, contro gli rilasciarono li respettivi sbarri, che per divino volere andarono vani”.

Possono essere più di una le ragioni per cui gli spari (sbarri) non fossero andati a segno.
La distanza probabilmente ancora ragguardevole, il fatto che gli schioppi o i tromboni in dotazione dei briganti non fossero facili da maneggiare, magari troppo pesanti o difettosi in precisione, e, perché no, un ripensamento all’ultimo istante di qualcuno di essi.

Fatto sta che Giovambattista Bertoli, fuori di se per l’esito inaspettatamente negativo dell’agguato si precipitò contro la vittima designata e “ad un tempo avventandosegli alla vita commisegli dell’archibugio già preparato lo sbarro a bruccia camicia, che lo colpì ne’ lombi a parte destra, con uscita della palla a parte sinistra, per cui poche ore dopo cessò di vivere”.

Nonostante fosse già segnalato agli organi preposti alla giustizia, non ebbe alcun ravvedimento per la grave colpa ed anzi, continuava a spargere terrore in quel di Lavenone “cosicchè stanco ormai l’Altissimo Iddio Signore della di costui ostinazione, permise, che nelle mani della giustizia cadesse, e che da questa fosse mandato all’esecuzione della giusta, e da lui meritata sentenza dell’ultimo supplicio”.

La sentenza venne eseguita mediante impiccagione in Brescia il 03 dicembre 1757.
Così conclude la citata relazione “da un tal esempio ciascuno apprenda a non abusarsi della Misericordia d’Iddio, a temere la Sua infinita giustizia ed a ravvedersi, ed emendarsi delle commesse colpe, onde non abbia poi a commetterne di tal fatta sorte, che siano al causa di un miserabile, ed orrendo fine”.

Guido Assoni

.in foto: Viaggiatori assaliti dai briganti, dipinto di Bartolomeo Pinelli (1817)

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