11 Marzo 2018, 10.00
Blog - Maestro John

Come neve

di John Comini

La mia amica Mari mi ha raccontato una storia bellissima e commovente. C’è un uomo, si chiama Natalino. È nato in un paese del lago. È un bambino di quattro anni quando rimane orfano. È stato messo in un collegio, dove le suore lo trattano bene. Conosce una ragazza molto giovane…


“È stata lei a scegliere me”. Vanno ad abitare nella città della ragazza, in Trentino. Hanno 2 figli, un maschio e una femmina. I bambini vengono iscritti ad una scuola di tedesco, ma l’integrazione è difficile. La moglie a 24 anni ha una diagnosi terribile, una malattia degenerativa. Natalino non riesce ad accudirla, e la moglie è ricoverata all’ospizio di Bagolino. Due volte la settimana, accompagnato da un taxista divenuto suo amico, Natalino va a trovarla. La moglie di Natalino muore a 57 anni. Ma lui ogni giorno continua a pensare all’amore della sua vita.
 
Dai figli ha solo dispiaceri. Hanno imboccato la strada della droga.Lo cercano solo per i soldi, a volte lo picchiano. Poi il figlio muore a 40 anni per droga. La figlia è in una struttura protetta e non sa neppure se è al mondo. Natalino ormai è vecchio, solo, in un letto d’ospedale. Aspetta solo di morire. A questo punto mi chiederete: che cavolo di storia bellissima è? Natalino era uno sconfitto. Sconfitto dalla vita. La vita gli aveva dato solo delusioni, dolore, disperazione. Aveva paura di tutto, anche di farsi vedere dal personale dell’ospedale.

Si nascondeva sotto le lenzuola. Intrappolato in un destino senza possibilità di uscita. Aveva un unico sogno: tornare a rivedere la vecchia casa sul lago, dove aveva conosciuto lei, l’amore della sua vita. Ma ormai non c’era neppure quella speranza. I giorni ormai stavano finendo, e forse era meglio così. Meglio la notte, l’oblio. Sono ormai dileguate le speranze dolci della giovinezza, e lui, come un confuso viandante, è giunto ormai alla fine del suo viaggio. La felicità è diventata un irrealizzabile sogno. E quando mai è stato felice? Solo con la sua donna, la sua piccola, tenera poesia.
 
Ormai è a Gavardo, nel reparto delle cure palliative. È un posto dove medici e infermieri cercano di dare sollievo ai malati con cure e partecipazione infinita. Ma Natalino continua a star sotto le lenzuola. Non vuol vedere nessuno, non vuol mangiare, vuole lasciarsi morire. La vergogna lo ha vinto. La caporeparto dice alla mia amica: “C’è un signore da aiutare a mangiare la sera. Sono 2 giorni che non mangia.”Lo vede. È coperto e non vuole togliersi le lenzuola. Si siede accanto a lui. Gli chiede dolcemente: “Mangiamo qualcosa?” E quella sera Natalino mangia, e poi per altri giorni. Ha le mani magre, le dita affusolate, da pianista. Dalle poche parole che sussurra si scopre che è una persona raffinata. Ha cominciato a fumare. Non si potrebbe, ma quando sai che hai pochi giorni… Natalino si confida con la mia amica. Parla della casa in cui è nato, riesce a recuperare un pizzico di speranza, un barlume di voglia di vivere. 
 
La mia amica incontra la signora Olga. È una bella signora che aveva comprato la casa sul lago, e racconta che quando abitava in Trentino alle 2 di notte Natalino caricava la moglie in macchina. Arrivati sul lago si sedevano su una panchina e osservavano la casa, ormai venduta. La signora Olga li vide, diventò loro amica e li ospitava a casa. Si prese cura di loro, offriva loro colazioni e tenerezza. “Tanto che fino all’ultimo respiro siamo state al suo capezzale.”
 
Natalino guarda fuori dalla finestra. Si vede la croce dei Tre Cornelli, il cielo tutto rosso. Guarda il tramonto. Pensa alla sua donna, al suo amore che forse da lassù lo sta guardando. Il 28 dicembre Natalino compie gli anni. In camera si fa una piccola festa con medici e infermieri. Sorridono e hanno parole gentili verso Natalino. Ci sono pastine e cioccolatini. Anche Natalino sorride. In reparto a Gavardo Natalino trova l’umanità incredibile di dottori e infermiere. Trova i baci mai ricevuti, il calore di una famiglia. Perché Natalino per loro è un essere speciale, e lo curano con le piccole cose che danno la serenità: il sorriso, lo sguardo gentile, poche parole ma piene di dolcezza.

E queste persone cercano di mettersi in comunicazione con gli ultimi, con gli esseri più deboli, più indifesi. Attraverso minimi e impercettibili gesti, cercano la tenerezza negli occhi delle persone, cercano - a volte con gioia, a volte dolorosamente - l’essenza del vivere, la misteriosa ragione di ogni cosa. E ogni giorno, ogni minuto cercano di rendere accogliente un ambiente che tutti noi non vorremmo mai vedere, ma che fa parte della vita. E lo fanno creando, in ogni istante, il miracolo dell’amore.

La mia amica è stata accanto a Natalino, col silenzio e l’ascolto, e lui le ha aperto il cuore. Standogli vicino la mia amica ha scoperto la bellezza del cuore di Natalino. Ogni piccolo gesto d’amore rimane per sempre. Illumina la tua vita, illumina quella di un altro. Se vuoi fare un regalo a qualcuno, prova a dargli il tuo tempo e la tua attenzione. Quando la mia amica gli ha fatto la barba, lui vuole vedersi allo specchio. Ma non c’è, allora la mia amica gli fa una foto con il cellulare e gliela mostra. Adesso per la mia amica quella foto è un ricordo indelebile, una delle sue cose più care. Negli ultimi giorni un dottore gli accarezza il magro corpo per rilassarlo, gli dà un bacio. Gli parla con infinita dolcezza. “Natalino, sei pronto per fare un lungo viaggio? Tra poco farai una grande festa con la tua moglie e tuo figlio”.

Natalino non riesce più a dire le parole, ma le parole a volte sono inutili. Parla con gli occhi. Nei suoi occhi c’è un mondo di tenerezza, c’è la dolcezza ricevuta da queste persone dapprima sconosciute ma che ora sono come fratelli e sorelle. Meglio. Hanno la delicatezza e la tenerezza delle persone che ti vogliono davvero bene, come padri e madri. Natalino se n’è andato dolcemente, l’11 gennaio. E da quella stanza piena di luce, immagino Natalino correre verso la sua donna. E i loro cuori battere all’unisono, le loro mani farsi carezze ed asciugarsi le lacrime.
 
“E allora lei si fece bella come il giorno che di lui si innamorò
cercò nel fondo di un cassetto quella camicetta che le regalò
e lui la tenne per la mano come la teneva tanto tempo fa
come un ragazzo e una ragazza scesero alla piazza 
e incominciarono a ballar…
E al suono della loro danza il vicinato addormentato si affacciò
e scese sulla piazza scura e molta gente giura che s’illuminò
e furono baci rubati, gridi soffocati che nessuno soffocò
che il mondo fece suoi, in pace l’alba poi spuntò…” (Mia Martini)
 
E io immagino che avrà abbracciato il figlio, e che in quell’abbraccio lo avrà perdonato. Per quanto possa aver fatto male, in fondo saprà che l’amore vince tutto. Perché non si è mai lontani abbastanza per non trovarsi…
 
“Niente ci viene dato per caso. Niente, neanche il dolore” (Mario Romano Negri)
 
Io adesso sto piangendo. Che volete farci? Mi cadono le lacrime sulla tastiera del computer. Io che faccio uno sbaglio dietro l’altro. Io che mi faccio delle domande a cui non riesco a rispondere. Io che delle volte vorrei sparire perché mi sento inutile. Io che non sopporto neppure l’idea di andare dal dentista, e che dinanzi al dolore ho una forma di rigetto. Io che vengo assalito da un senso di profonda vergogna dinanzi alla mia vita mediocre e alle cattiverie che vedo. E allora mi giungono alla mente le immagini delle suore che curano con amore i malati di Calcutta. Allora penso alle persone anonime, lontane dal successo del mondo, che danno una mano a chi cammina sulle vie crucis del mondo. Il grido di aiuto è in tutti gli angoli della terra. E spesso è un grido silenzioso, che solo chi ama riesce ad ascoltare. 
 
“Non importa quel che tu fai, ma quanto amore ci metti” (Madre Teresa)
 
Fernando Pessoa scriveva che “il valore delle cose non sta nel tempo in cui esse durano, ma nell’intensità con cui vengono vissute, per questo esistono momenti indimenticabili, cose inspiegabili e persone incomparabili.”
 
Quella mia amica (tra l’altro simpaticissima e piena di entusiasmo) mi ha fatto leggere un piccolo ma profondo libro di Susanna Bonomini, anche lei volontaria Avulss, che è stata testimone di incontri straordinari e commoventi con malati terminali. Cito alcune frasi, che sono stupendi fiocchi di neve: “Fare qualcosa senza ottenere vantaggi personali è di una bellezza inspiegabile… In oncologia, in hospice, alla casa del dolore, sono posti dove si va quando ci si ammala, o quando si ha un parente o un amico ricoverato e, in queste occasioni, si sta il tempo di una visita. Oppure si sta di più perché la professione che abbiamo è lì, con i malati. E poi, e questo è strano, ci sono persone che ci vanno spesso pur non essendo malate, pur non ricevendo compenso. Ci vanno perché scelgono così. Io sono una di quelle persone, sono volontaria. Chi viene a sapere del volontariato di cui mi occupo, spesso si stupisce e mi domanda: “ma come fai?” oppure “ma perché questa scelta?”… Chi fa volontariato non ha tempo per farlo. E al volontariato non si arriva per leggerezza, per noia, per riempire la superficialità del tempo vuoto. Il volontariato non è fatto del tempo perso, è fatto del tempo che abbiamo.

Il tempo del volontariato può essere “rubato” agli impegni, al lavoro, agli amici, alla famiglia, agli hobby e spesso anche al sonno. Il volontariato è la vita nella vita che abbiamo. È per questo che magari comincia con riservatezza, ma poi non resta discreto, irrompe ovunque e diventa parte di te, della tua vita. Le mie amiche, che essendo tali mi vogliono bene, credono che io abbia delle capacità speciali, dei super poteri che mi permettono di stare accanto a chi soffre e non soffrire, infatti mi dicono “ti ammiro, ma io non riuscirei, soffrirei troppo” o ancora “io non potrei, sono troppo sensibile”. In verità anche io soffro, e tanto. Anche io piango e mi dispero… E anche a me non piace soffrire, però, ugualmente, mi appunto il tesserino di riconoscimento e vado dove mi sento chiamata… Chiariamoci però: la morte non mi piace, come potrebbe essere altrimenti?... si porta via le nostre risate… Inoltre (nonostante la mia fede cattolica) temo la morte, la mia e quella delle persone a cui voglio bene. Ma soprattutto mi fa orrore che qualcuno possa morire senza essere visitato dalla compassione. Senza che possa parlare delle sue paure, del mistero dell’aldilà con nessuno. Purtroppo, succede spesso. Anche perché la morte fa paura a tutti…

Ecco una ragione per cui faccio la volontaria: perché mi piace pensare che anche grazie a me, ci possa essere una persona in più che arriva accompagnata, serenamente, alla morte. E perché le cose condivise sembrano meno pesanti, meno dolorose se si ha la forza e il coraggio di guardarle insieme. E perché le persone malate, le persone che stanno per morire, tutte, hanno molto da insegnarmi… L’Italia è un paese fondato sul volontariato. Se si fermasse il volontariato, si fermerebbe anche il nostro paese. Invece, per fortuna, il volontariato non finisce. E non finisce perché il bene esiste. Grazie a Dio, il bene esiste.” La signora Susanna racconta di un malato prossimo alla morte. “Un pomeriggio mi disse: ‘Susanna, siamo agli ultimi.’Allora gli presi la mano, la baciai e me la appoggiai sulla guancia…restammo in silenzio fin quando lui si appisolò, al risveglio mormorò “vorrei essere un’aquila, avrei ali grandi da abbracciarti tutta.” Gli sorrisi, ma uscii dalla stanza con le lacrime agli occhi.”
 
Mi sembra di sentire la canzone “Come neve” di Marco Mengoni e Georgia…
 
“Neve insegnami tu come cadere nelle notti che bruciano 
a nascondere ogni mio passo sbagliato 
e come sparire senza rumore 
scivolare nel corso degli anni 
e non pesare sul cuore degli altri 
ma non è semplice non sentire il silenzio che c'è 
qui non è facile guardare il cielo stanotte 
Perché quello che sono l’ho imparato da te 
tu che sei la risposta senza chiedere niente 
per le luci che hai acceso a incendiare l’inverno 
per avermi insegnato a cadere come neve…
Neve imparo da te che sai come fare 
a coprire le nostre distanze 
a cancellarne anche solo un momento le tracce 
come neve…”
 
Il paesaggio innevato è dell’amica Sara Ragnoli.
 
John Comini
 
Questa settimana è salita in cielo Angela Bonera (nella foto), una signora che ha dedicato la propria vita al servizio del Signore e dei fratelli. L’ho conosciuta quando seguiva il fratello don Mansueto, cappellano dell'ospedale e del monastero delle Orsoline a Gavardo. Nella foto il caro don Mansueto è con il futuro santo Paolo VI. Angela era sorella della dolce Agnese, mamma dei miei amici Beppe, Marilena ed Elena Mangiarini. Il loro papà, Vincenzo, aveva recitato con il Gruppo Teatrale Gavardese del mitico Tano Mora. La foto si riferisce allo spettacolo “W il parroco”, Vincenzo (che interpretava  il sagrestano “Burtulì”) è tra Beppe e Marilena. Al funerale mi sono commosso, ascoltando l’amico Beppe che cantava accompagnato dall’organista. Da lassù Angela ed il coro degli angeli avranno apprezzato la sua splendida voce.
 


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