23 Dicembre 2018, 13.30
Gavardo
Blog - Maestro John

Venturelli, i paesaggi della vita

di John Comini

Oggi vorrei parlare di Silvio Venturelli. I suoi dipinti mi regalano un’emozione dolcissima, mi donano dolcezza e serenità


Gavardo è stato sempre un paese “fertile” di pittori. Da Cesare Bertolotti, il noto pittore che trascorse lunghi soggiorni in località Doneghe (il figlio Giuseppe, capitano d’artiglieria da montagna, fu medaglia d’oro), a Giuseppe Filippini Felice Antonio (nato nel 1909 e morto giovanissimo, ha lasciato un’orma incancellabile nella pittura del Novecento), al celeberrimo Piero Manzoni, scomparso a soli 29 anni, che dal ‘36 trascorse le vacanze estive nella casa di famiglia a Soprazocco.

E poi ci sono, oltre al caro Domenico Giustacchini, Angelo Parolini (sono stato maestro della figlia Paola), Alba Chiodi (moglie di Piero Antonelli), Attilio Saccani e Boffa Celeste. E poi ancora Augusto Oliva, Albino Ranesi (papà di Cristina e bisnonno di Nicolò), Ermanno Romano, Luigi Giustini, Eugenio Renica, Silvio Veneziani, Bruno Mora, Osvaldo Abarabini (mio coscritto), Cristina Chiodi, Wanda Bresciani, Carla Grumi, Maryna Barodzich, la dolce Tersilia Ranesi…

E ancora (ma sicuramente ne dimentico qualcuno, e mi scuso) Giambattista Quarena (anche scultore), Gianna Gavezzoli, Sara Tebaldini, Daniele Roner, Fida G. Spinelli, Serena Venturelli, Simona Franzoni e Maria Rosa Falsina. E poi Franca Vitali Capello (ottima illustratrice di libri per bambini e ragazzi e pittrice naïf) e Giuseppe Bravi (Beppe per gli amici), marito della cara Gabriella Cantoni: crea opere straordinarie che ricordano Paul Klee.

Non posso dimenticare due amiche: Chiara Abastanotti (brava nei fumetti e nelle illustrazioni per l’infanzia) e Gabriella Goffi, una persona riservata e profonda, che realizza opere ricche di un fascino misterioso, utilizzando materiali della vita quotidiana come stoffe, legno o metalli. E infine dovrei citare il mio amico Deni Giustacchini: ha creato quadri stupendi, ma lui non ne vuol più sapere di dipingere…Meglio, i quadri che mi ha regalato acquistano ancor più valore, eh eh eh!

Oggi vorrei parlare di Silvio Venturelli. I suoi dipinti mi regalano un’emozione dolcissima, mi donano dolcezza e serenità. Ammiro gli scorci di un paese ormai perduto e travolto dalla modernità, le lavandaie e il mercato, quegli splendidi ulivi sopra una terra morbida, dove le nuvole passano via leggere in un cielo azzurro e pulito. Quando andavo a trovare il mio amico Beppe, nella casa di Via Quarena, mi capitava di incrociarlo. Il signor Silvio mi sorrideva, gentile e cordiale. Mi piacevano i simpatici personaggi che aveva disegnato sui mobili della cartoleria ex Rizzi in piazza Zanardelli.

Con Beppe ed altri amici siamo andati nella sua Sunclì, a vedere l’alba sulle colline. Ma poi l’alba ci ha colti addormentati…L’ultima volta che ho incontrato il signor Silvio è stato per caso, in ambulatorio. Gli dissi di aver letto la sua autobiografia “I colori della vita”, gli feci i complimenti. Mi ha colpito il fatto che si sia commosso alle mie semplici parole di stima. Dopo pochi mesi è andato in Paradiso.

Leggendo i suoi ricordi, quasi un testamento, ho pianto. Ho capito che i suoi splendidi quadri erano un desiderio di pace, ho capito che in lui c’era il potere nostalgico del ricordo e del rimpianto, che la sua arte era uno strumento per allontanare la guerra e la cattiveria del mondo…
 “I colori della vita” è  dedicato “A Maria mia moglie, dolce compagna”. Inizia così: “Le sorelle mi raccontano che sono nato sotto la foglia di fico in fondo alle scale di casa Trotti in Viale Umberto I° (ora Viale Mazzini) di Gavardo, il 16 febbraio del 1924.” Silvio è figlio di Faustino e di Domenica Bertelli.

Nella sua memoria di bambino tutto torna magicamente trasfigurato. I frequenti traslochi sono quasi un divertimento. Ricorda l’asilo e i tavolini col buco per le scodelle, la grande stufa di terracotta dove si appoggiavano i bambini ad asciugare quando erano bagnati di pipì, i chiodi messi sulle rotaie per appiattirli al passaggio dei treni merci, i carretti costruiti con rotelle a sfera per buttarsi giù nella discesa di Viale Stazione. Gli sembra ancora di udire il suono delle campane della vigilia di Pasqua, con la madre che gli bagna gli occhi proprio nell’istante in cui esse venivano “slegate”.

Gioca con gli attrezzi da elettricista del padre, ma un giorno combina un guaio e il padre lo rincorre per strada agitando la cintura sfilata dai pantaloni. Quando ha l’influenza dorme nella camera dei genitori leggendo “Il Corrierino dei piccoli”.

In terza elementare ha già una particolare propensione per il disegno: la brava maestra Beatrice Ferretti lo trattiene al termine delle lezioni per eseguire ornamenti alla classe  assieme a Cilo Boffa, pure buon disegnatore (avrebbe potuto dedicarsi all’arte: ha scelto di fare l’imbianchino dilettandosi con quadri naïf). Nel ‘36 il padre è colpito da infermità, Silvio è costretto a tralasciare gli ideali artistici per affrontare vari mestieri che gli consentano di aiutare la famiglia. La vita è difficile e precaria, con l’acqua da attingere alla fontana della piazzetta San Bernardino, la latrina buia e la camera dei genitori con soffitto di travi sconnesse che lasciano intravedere il cielo sopra i tetti.

Durante le vacanze dall’Avviamento, è messo a bottega da Piovanelli, lucidatore di mobili, per imparare a fare él lüstrù.
Attorno al ‘36 Silvio anima con alcuni compagni “La banda volante”, con scorribande sul Montesèl. Nel periodo pasquale la banda raccoglie le catene dei camini da sgürà.

Nel ‘37 il fratello Giuseppe è richiamato alle armi, Silvio lo sostituisce presso lo zio Giacomo, in un negozio di scarpulì a Villanuova. A 14 anni è assunto dal Mobilificio Manenti che lavora a tempo pieno per il governo, producendo anche cassette per munizioni. Nello scantinato di Aldo Ranesi costruisce un barchino (sandolino) per pagaiare sul Naviglio.

Durante le adunate, vestito con la divisa di Balilla, si mette in mostra per piacere alle ragazzine (come nel film di Fellini “Amarcord”…)
È scelto per partecipare ad un concorso di disegno a Brescia, e per la prima volta sale sul tram. Con l’amico Piero Simoni fonda la “Filodrammatica San Genesio”: fa la regia, il truccatore e lo scenografo. Per autofinanziarsi allevano bachi da seta.

Nel ‘39 l’anno più triste: il padre muore. Tocca a lui costruire la croce di legno laccata di bianco e bordata di nero. La mamma, quando si reca al cimitero, dice orgogliosa “Él la fada èl mé Silvio!”

Nel ‘40 viene assunto alla Società Elettrica di Gavardo
, dove lavorava il padre: gli amici gli affibbiano il soprannome di “Scòssa”. Gli piace il lavoro, ma deve dire addio alla scuola d’arte. Però frequenta i corsi serali “Moretto”. Per divertimento dipinge qualche quadro ad olio copiando da cartoline. Per risparmiare, confeziona i pennelli con le setole di pelli di capra e per cavalletto usa la scala a pioli appoggiata alle travi del soffitto.

Il cielo è ormai minaccioso: arriva la guerra. Il fratello Giuseppe è dato per disperso sul fronte russo. Silvio cerca di rincuorare la mamma “Giuseppe non è morto…è solo disperso, vedrai che tornerà” Ma la mamma scuote la testa: il suo cuore le dice che non l’avrebbe più rivisto.
A 19 anni basta poco per scacciare i pensieri tristi: basta trovare qualche animale da cortile (o anche un gatto) da mettere in pentola ed è subito festa. L’amico Domenico Giustacchini ha sempre una nuova barzelletta da raccontare e Gino Tedoldi (papà del grande Teddy) intona canzoni con la sua voce baritonale.

Nell’estate del ‘43 Silvio parte soldato, in marina. Ma dopo l’8 settembre viene arrestato dai tedeschi e trasferito in pieno inverno su carri bestiame in un lager: baracche umide, nauseanti, con finestrini senza vetri, su letti privi di paglia e lenzuola. La gente grida loro: “Traditori!” Tra i compagni di sventura, uno lo osserva mentre “scarabocchia” qualche foglietto di carta. Si scambiano i ritratti…non si rivedranno mai più. Riesce a nascondere sotto la cintura dei pantaloni un piccolo quaderno per farne un diario. Fame, sempre fame. “Gò ‘l bigol dèla pànsa che mé toca ‘l fil dè la schéna” dice un suo amico. Viene trasferito in un altro lager, adattato nientemeno da un teatrino con tanto di palchetto, sottopalco e galleria; è anche riscaldato. Lavora in una fabbrica con reparti di trafileria e laminatoio. Sugli indumenti ha scritto IMI (Italiani Militari Internati).

Silvio è il numero 100, “proprio come usavano scrivere sulle latrine, dette, appunto, numero cento…” Lavora insieme a civili tedeschi, non sono cattivi e molti hanno un figlio al fronte. Per Natale si impegna a creare il presepio. Con matita e forbici crea delle figurine. Il Lagerführer vede la sua buona volontà, gli procura matite colorate. Un compagno di nascosto gli porta una grossa rapa, Silvio ne fa la grotta di Betlemme, ma la fame è troppa e i compagni si contendono la rapa. Silvio con la cera fusa realizza alcune candeline che accende nella notte di Natale. I compagni si stringono attorno al presepio con sorrisi e lacrime. Si recita il rosario. A mezzanotte il Lagerführer porta alcune sigarette per attenuare la tristezza. Poi ognuno raggiunge la branda, dando sfogo ai più intimi pensieri. “Il presepio rimase solo con le candeline accese, emblema dell’ultima scintilla di fede che ci era rimasta.”

I prigionieri sono impegnati ad aiutare i civili, vengono accolti nelle case con simpatia e molti si prodigano per saziare la loro fame arretrata. Silvio stringe amicizia con Vitus, è buono e gentile e di lui si ricorderà per tutta la vita.
Lungo la strada incontra una ragazza dagli occhioni grandi. Si fa coraggio e le rivolge la parola: “Ciao…ciao. Wie geht’s? (come stai?)” E lei sorridendo “Gut!” “Dein Name?” “Stilla.” “Io Silvio.” Poi diventa rosso e le fa ciao con la mano. La incontrerà ancora, lei gli porterà qualche sigaretta e qualche bollino per il pane (sicuramente se li è tolti di bocca per lui) e rimarrà nel cuore come una grande amica. Conserverà per sempre la sua fotografia.

16 febbraio ‘45: “Oggi è il mio compleanno: 21 anni e un milione di pulci che mi tengono compagnia! Il mondo sta marcendo! E noi “cadaveri” seppelliamo altri cadaveri. Come è possibile vivere una simile vita? Non sarebbe meglio se il Padreterno mandasse un diluvio universale per affogarci tutti?”

Nell’aprile ‘45 la notizia: gli americani sono a 10 km, fuga precipitosa. Dopo varie traversie, arriva a Gavardo. I soldati americani sorridono allegri e gettano caramelle, cioccolato e chewing-gum. Gli si presenta un triste spettacolo: le case presso il ponte distrutte dal bombardamento. È in ansia per la mamma. Il paese è deserto. L’Adriano Galante gli dice: “Ci sono stati tanti morti, ma tua madre si è salvata.”

Riabbraccia commosso i suoi cari. Con la madre piange di gioia. La notte non riesce a dormire perché non è più abituato ad un letto soffice. La mamma “Che ghét, Silvio? Perché dórmèt mia?” Anche lei non dorme, perché pensa a Giuseppe e Giacomo, i due figli ancora lontani. Viene portato al ricovero, diventato ospedale. Pesa 46 chili. La suora gli dice “Ora, ragazzo, devi mangiare per recuperare peso.” Va in casa Leggerini, dove è pronta una bella cena con l’aggiunta di qualche bicchiere di vino che non beveva più dall’8 settembre.
Fa lunghe passeggiate per le strade di campagna, prova a fare qualche schizzo, qualche disegno che gli faccia dimenticare il passato. Ma la sua prigionia è considerata una “vacanza” ed è costretto a riprendere il servizio militare per concludere il periodo di leva! Una beffa, a dir poco! Diventa marò-autista a Taranto.

Quando torna, incontra Maria Bontempi, la “bella fornarina” (le zie Zilioli avevano la forneria). Sul cavalletto inizia a dipingere i primi quadri dal vero, i primi paesaggi.

Ma sente un grande malessere, non ha più appetito e dimagrisce. La mamma si preoccupa e gli prepara zabaioni al marsala. Una tosse stizzosa lo tiene sveglio anche di notte. Pensa che la causa siano le sigarette. Trascorre le ferie in agosto a Stadolina, in Val Camonica (dove ha dei parenti) nella speranza che il clima di montagna giovi alla salute precaria. Deve lasciare Maria, ma lo raggiunge l’amico Domenico Giustacchini. Con lui fa lunghe passeggiate, muniti di cavalletto vanno alla ricerca di angoli suggestivi da dipingere. Cerca di cogliere nel paesaggio la serenità perduta, rappresentando luoghi tranquilli, sempre venati da quella malinconia che è rimasta dentro di lui. Domenico “forse influenzato dall’ambiente in cui viveva, la fabbrica, trovò una sintesi attraverso le scene di lavoro, personaggi che si erano fermati nel tempo, rappresentati con una tavolozza di toni caldi che hanno dato alla sua figurazione una sigla personale. Siamo rimasti sempre buoni amici, partecipando a tante manifestazioni e rassegne.”

Ma poi inizia un nuovo calvario, il radiologo gli mostra la lastra: TBC polmonare in stato avanzato! Il dottor Rossini: “Caro figliolo, è stata la prigionia che ha lasciato il suo ricordo.” Viene ricoverato a “Villa delle Rose”, a Fasano, trasformata in sanatorio per reduci dalla prigionia. Molti purtroppo morivano. La terapia è intensa: ogni giorno iniezioni di vitamine, calcio, ma a tavola buon cibo. È in una cameretta con un terrazzino rivolto sul lago, verso l’Isola Borghese. Dipinge seduto al tavolinetto. Entra nelle simpatie del personale che ammira la sua capacità di dipingere. La sera, colto dalla malinconia, prende la penna e scrive a Maria.

Ristabilito, si dedica a tempo pieno alla pittura. Molti lo spronano sulla via dell’arte, come il dottor Marzollo, che ogni giorno va a trovarlo per esaminare le tele. C’è anche Attilio Mazza, ancora studente, che diventerà critico d’arte e scrittore.

Il 25 febbraio 1952 si sposa con Maria. Le zie Zilioli di Gavardo e della pasticceria di Brescia forniscono un’abbondante e gustosa tavolata di panini e di paste. Ricorda l’appetito di Maria che non riesce a trattenersi dal mangiare quattro panini prima della cerimonia. La chiesa è addobbata da una profusione di fiori, grazie alle zie, ed il rito è celebrato da Monsignor Ferretti. Il corteo attraversa il paese che ancora mostra le ferite del bombardamento. Vende la Balilla e acquista una Lambretta. Nasce Giuseppe, chiamato così in ricordo del fratello disperso. Beppe è bello e buono. Nonna Meneghina ripete: “Ma Dio se l’è bù chèl pütì ché!”

Nel ‘60 torna in Germania, per rivedere i luoghi della prigionia, seguendo con la Fiat 600 la stessa strada che aveva percorso a piedi. Riabbraccia Vitus e le persone che l’avevano aiutato ad alleviare le sofferenze. Rivede Stilla. Ha avuto un’esistenza tribolata. Ma anche a lei “saranno tornati alla memoria quegli oscuri giorni che la nostra gioventù aveva illuminato”. Quel viaggio inizia una relazione ininterrotta, con scambi di visite fra le famiglie.

Nel ‘54 partecipa alla fondazione del Gruppo Grotte Gavardo animato dall’amico Piero Simoni, insieme ad Alfredo Franzini e ad Alberto Grumi (mio maestro!). Silvio diventa operatore cinematografico dilettante e realizza alcuni cortometraggi. Con l’amico Piero Buccella impara a stampare le foto in bianco e nero, vincendo anche qualche premio.

Nel ‘65 nasce la bellissima Carmela. Acquista a San Quirico un appezzamento boschivo: sorge così il Sunclì, che diventa luogo di riferimento per gli amici.

Nel ‘67 la mamma se ne va silenziosamente, come silenziosamente era vissuta. Aveva 85 anni. La morte la coglie all’improvviso, “sembrava avesse scelto di morire in quel modo per evitare di recarci troppo dolore con una lunga malattia”.

Frequenta l’Associazione artisti bresciani. La sua pittura è frutto di una costante ricerca, passa dall’olio alla china, alla tempera, alla tecnica mista e monotipia. Come l’amico Giustacchini, rimane ai margini delle diatribe fra correnti artistiche.

Nel ‘75 espone a Parigi, coronando un sogno. Nel 1981, su proposta del sindaco Gabriele Avanzi, viene nominato Cavaliere al merito della Repubblica.

Va ad abitare in Via Capoborgo, dove ricava uno studiolo tranquillo per lavorare lontano dai rumori della strada. La finestra su Vicolo Poletti gli offre la visione di uno scorcio del borgo medievale. “Quando al mattino mi siedo davanti al cavalletto penso sempre che non posso desiderare altro.”

Carmela dà alla luce Giulia, che apprezza i dipinti del nonno, soprattutto la pallina di pezza che sigla spesso i suoi quadri. Il libro si conclude con la nipotina Giulia al cavalletto…

Silvio Venturelli ci ha lasciati il 20 dicembre 2003 (tre giorni dopo il mio papà).

Qualcuno ha scritto che “solo la bellezza può salvarci”. Il libro ed i quadri di Silvo Venturelli sono lo struggente, bellissimo ricordo di un artista mite, che scrisse: “La pittura è la ricerca della vita: la serenità è la sua ultima spiaggia.”

Ci sentiamo a Natale, a Dio piacendo,                                                

maestro John

Nelle foto:
1) 1981 foto di famiglia, durante una mostra a Vallio Terme
2) Gli ulivi
3) Il mercato di Gavardo (1952)
4) La stazione



Commenti:
ID78896 - 23/12/2018 15:02:30 - (Geppo1950) - a Dio piacendo

Per fortuna che a Dio piace, leggo sempre i tuoi scritti ma che dico, sono dei quadri che rappresentano la vita vera di Gavardo e dei suoi abitanti, ti ringrazio e auguro buon Natale, sempre a Dio piacendo.

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