15 Febbraio 2017, 10.46
Pertica Alta
Valsabbini

Alberto Andrea Tomasini, re d'Italia

di Beppe Biati

Ecco la storia straordinaria di un livemmese che nel lontano 1912, all'età di 18 anni, emigrò negli Stati Uniti d'America

 
Mia madre, nelle sue colorite narrazioni, mi parlava spesso dello zio Andrea, zio per lei e prozio per me, andato a far fortuna – si diceva – in America. 
Era giunto, diciottenne appena, in California, a Fort Dick, dopo le inenarrabili vicissitudini di una lunghissima e pericolosa  traversata oceanica, alla ricerca di un posto di lavoro, ovviamente in agricoltura, da pastore con l’odore delle pecore e delle capre ancor sotto il naso, nelle sterminate pianure o sugli aridi altipiani californiani. 

Difficile era anche, per un giovane e poco istruito emigrante, l’apprendimento di una nuova lingua, abituato all’affannosa e mitragliante apnea di certe tirate linguistiche livemmesi, cantilene ciondolanti non senza curiosi scambi vocalici, tipici dei valsabbini di montagna. 
Per gli autoctoni,  diciamo quelli arrivati prima di lui in America, sarebbe stato un esercizio di decriptazione di un linguaggio che trasmetteva non tanto precisi riferimenti lessicali, quanto arcane energie fonetiche e risonanze suggestive.
Tutto questo si doveva dimenticare, per far posto a nuovi suoni, aspirati e gutturali, poco dolci se comparati a quelli derivanti dalle parlate neolatine.

Fort Dick, dove era andato ad abitare lo zio, era allora poco più di un villaggio, ma a me, bambino, dalle descrizioni fantasiose della mamma, appariva come un mondo ricco di attrattive di ogni genere e soprattutto privo dei risvolti poveri che un paese, come l’Italia, appena uscito dalla seconda grande tragedia mondiale, stava vivendo.

Pian piano lo zio Andrea, nella silenziosa solitudine e nei sottaciuti rimpianti familiari, costruiva il suo avvenire di laboriosa onestà.
In questa terra straniera ed estranea, la sua vita diveniva una quotidiana impresa, condita di  non evidenziate sopportazioni, di dure fatiche, di indiscusse obbedienze.

Lavoro e volontà, però,  non mancavano; e con volontà e lavoro iniziava una  crescita civile ed economica.
Partiva, intanto e silenzioso, un piccolo e vitale gruzzolo verso la famiglia d’origine, come necessitante legame e confortante motivo di quanto intrapreso e subìto: solidarietà clanica tra i contadini di montagna!

Prima il lavoro dipendente, poi l’agognato lavoro autonomo! 
Era, dopo la nuova famiglia, l’atteso traguardo di Andrea, facilitato da una innata attitudine relazionale e da uno sciolto  linguaggio, appreso, complice la necessità,  con rara duttilità e capacità espressiva.

L’insegna dell’”Hostaria della Pertica faceva da imperdibile richiamo per abitanti locali e per emigranti! 
Dal 1933 al 1984 era stato un susseguirsi di personaggi noti e meno noti, di abituali avventori, di conosciute personalità e di umile gente: faceva bene fare due chiacchiere in una taverna, dove la simpatia era connaturata al carattere del gestore che ti riportava alla serenità della vita.

Lì, se tu avessi sostato, Andrea Tomasini probabilmente ti avrebbe mostrato il cartoncino degli auguri che il presidente degli Stati Uniti d’America, Ronald Reagan, gli aveva inviato.
Il biglietto era giunto con tre mesi di ritardo, ma questo non aveva assolutamente preoccupato l’allora novantenne proprietario della famosa taverna.
Non sapeva come Reagan avesse saputo di lui e del suo compleanno, ma in America, quando compi novant’anni, ti giungono automaticamente gli auguri del presidente.

Questo è uno dei vantaggi di vivere in America”, diceva, con sottile ironia, l’emigrante italiano.
Qual era il segreto della sua lunga vita?

Nel suo stretto accento,
quasi desunto dalla cadenza dialettale del suo borgo d’origine, “questo vero italiano” ti avrebbe detto di essere cresciuto grazie alle castagne dei suoi nativi pendii, nella Pertica di Valle Sabbia, in provincia di Brescia.
Le castagne erano mescolate a tutto, dalla farina al grano, e, mangiate nel caldo latte appena munto, avevano il miracoloso sapore che si coglie nell’allontanare il fastidioso morso della fame.

Forse egli, attraversando il bar, ti avrebbe condotto al suo piccolo appartamento sul retro, di legno e ingentilito dai ricordi del suo paese natale, con l’immagine della parrocchiale, dedicata a S. Marco, quella dell’altare ligneo della Madonna del Rosario, con soasa intagliata dai Boscaì di Levrange, l’ingiallita fotografia del santuario dei Morti di Barbaine, dove aveva avuto modo di pregare, nelle usuali e devote cerimonie, i suoi poveri morti. Intorno allo specchio, poi, una dozzina di visi familiari, con gli angoli arricciati, erano un portato ricco di ricordi e di emozioni.

Sebbene fosse partito per l’America all’età di 18 anni, ora, novantenne, sarebbe stato in  grado di raccontarti ogni balza di quei dirupi natii, ogni mulattiera di collegamento tra borgo e borgo, ogni luogo di gioco delle numerose, allora, schiere di ragazzini.
Recentemente aveva ricevuto uno scritto dal nipote Pietro Tomasini, di Vestone, settantacinquenne, che lamentava una dolorosa artrite. 

Il proprietario di Fort Dick non aveva questi problemi.
Sono fortunato” - diceva – “e mi mantengo in forma!”.
E, intanto, si versava un goccio di whisky nel suo caffè del mattino e, nel contempo, preparava due bicchieri di vino rosso da sorseggiare mentre discorreva col suo ospite. 
Mantenersi in quella forma aveva senza dubbio qualcosa a che fare con il vivere a 90 anni.

Tomasini era attivo, si muoveva costantemente, si occupava dei lavori domestici e del bar.
Sebbene dicesse di voler passare la mano al figlio, si aveva l’impressione che il momento fosse ancora lontano.
Il bar era la sua vita e conteneva numerosi ricordi del suo passato “di società”.
Aveva molti amici che visitavano la taverna ogni giorno, eccetto il lunedì, giorno di chiusura.
Alcuni di loro avevano raccolto 500 dollari per comprargli un suo ritratto ad acquerello dipinto dall’artista Liz James, nel giorno del Lily Festival, dove gli era stato assegnato il posto d’onore sulla carrozza del sindaco: sindaco  ad honorem, per un giorno, quello del suo novantesimo anno di vita! 

Quel dipinto è ancora appeso ad una parete del bar con la scritta: ”Alberto Andrea Tomasini, re d’Italia”.
La sua “hostaria” era di piccole dimensioni: c’era posto solo per 15 clienti. Ma il bancone di mescita era enorme, in legno massiccio, acquistato dal falegname Joe Tosio, anche lui di origini italiane e amico da vecchia data.
Tomasini amava essere attorniato da persone e cose che gli erano particolarmente care.

Ancor oggi
un ritratto di F. D. Roosevelt si trova nell’esatto punto in cui Tomasini lo appese nel 1933, anni difficili, di crisi, ma di crisi superate.
Era lo stesso anno in cui ottenne la licenza per la vendita degli alcoolici, immediatamente dopo i giorni del Proibizionismo. 
Quella licenza, raccontava, era la più antica d’America.
Anche una vecchia bandiera americana era stata fissata al soffitto dalla locale squadra di pallacanestro e Tomasini era orgoglioso che anche lo sceriffo,  Tom Hopper, avesse dato il proprio aiuto ad appenderla.

C’era, poi, un pesante martello di legno sul bancone, un ammonimento per coloro che fossero diventati troppo scortesi o si fossero incamminati verso un’ubriacatura molesta.
E’ per colpire chi causa problemi”, diceva in tono scherzoso Tomasini, ma ammetteva anche che mai era stato usato in più di mezzo secolo di attività.

Non so molte cose” - amava dire - “ma finchè posso parlare ad un uomo, non ho bisogno della forza!”.
Sempre e prima di tutto un vero signore, accorto e diplomatico.
La passione per la conversazione era la carta vincente dell’”hostaria”.

Giorno dopo giorno, notte dopo notte, ora dopo ora, i clienti si incontravano, bevevano, si appoggiavano al banco, narravano vecchie storie, ricordavano…
Mentre Tomasini era dietro il bancone, un po’ del vecchio mondo filtrava nell’”hostaria”: era il ricordo di un modo di vivere più semplice, più lento, più riflessivo.

Se si giudicasse il valore di un uomo dalla qualità e dalla quantità degli amici, Andrea Tomasini varrebbe tanto oro quanto il suo peso e sarebbe di un valore inestimabile.
Se senti che il vecchio Italiano è spirato” – diceva- “salutami gli amici!”.
“If you hear that the old Italian pass away, you just tell everybody goodbye!”. (*)

Beppe Biati
 
(*) Il giornalista Sherry Heiser del giornale “The Triplicate”, nel 1984, aveva scritto un articolo-intervista su Andrea Tomasini. Queste notizie vengono riproposte qui, in una libera riduzione, a cura di Giuseppe Biati.

.in foto: la struttura originaria del bar di Tomasini, a Fort Dick; altre da Fort Dick.
 


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