27 Giugno 2020, 06.39
Psicologia

Disturbi specifici dell'apprendimento. Di cosa si tratta?

di Marzia Sellini

Leggiamo che “esistono molti bambini e ragazzi che nel corso della loro carriera scolastica incontrano momenti di particolare difficoltà negli apprendimenti, ad esempio nella lettura, nella scrittura o nel calcolo...


... Tali difficoltà possono manifestarsi con diversi gradi di severità, incidendo sulle singole discipline e, quindi, sul rendimento scolastico in generale, provocando problemi di autostima e adattamento.
Si tratta di una serie di problematiche che interessano una percentuale abbastanza elevata della popolazione scolastica e purtroppo il disagio psicologico che ne deriva, il senso di scarsa autostima, le reazioni di mascheramento e le strategie di adattamento che vengono messe in atto sono spesso interpretate come scarso impegno, pigrizia o semplicemente svogliatezza.”

Ora, consideriamo questo lungo periodo, nulla da ridire rispetto alla lettura di questo fenomeno e nulla di ridire rispetto al fatto che vi siano, nella comunità scolastica, alcuni bambini che, in particolari momenti, incontrano specifiche difficoltà negli apprendimenti. 
Va aggiunto, per correttezza, che  l’esistenza di questi bambini è consentita e riconosciuta proprio da parte degli adulti. Forse parrà ovvia questa affermazione, ma se consideriamo la storicizzazione del concetto  di bambino scopriamo che non lo è.

Nel passato, per esempio, i bambini non esistevano, molti erano convinti che non fossero delle persone vere e proprie. 
Oggi invece, non solo ne riconosciamo socialmente l’esistenza ma conferiamo loro diritti, in quanto individui facenti parte della società. E’ curioso come in ogni riforma della scuola mai una volta si accenni ai bisogni dei bambini.

Le difficoltà nell’apprendimento emergono sempre dalla dichiarazione di colui che riconoscendo ed osservando il comportamento del bambino, ne constata la presenza. Ed anche questa potrebbe sembrare una considerazione scontata.
Poiché l’attenzione al bambino da parte dell’insegnante è fondamentale per garantire la sopravvivenza, l’incremento dei contenuti e l’esercizio delle capacità. Occorre che l’adulto sia istruito, informato, aggiornato e legittimato ad individuare tali impedimenti.

In questi ultimi dieci anni, gli insegnanti sono stati infatti formati, da parte di alcuni psicologi, a riconoscere i segni nei bambini di questi limiti.
Un bene questo, laddove tutto ciò consenta di raffinare, da parte degli studiosi, la conoscenza dei principi, dei passaggi, dei fattori, dei concetti, degli strumenti che favoriscono l’apprendimento o permettano d’individuare, nel processo, gli ostacoli che si frappongono al buon esito e consentano perciò di trovare gli ausili per superarli. Ma attenzione, se tale osservazione viene inclusa come appiglio del paradigma preventivo dell’insuccesso scolastico, anziché promozionale del successo scolastico, gli esiti cambiano drasticamente.

Eppure bambini che mostravano impedimenti negli apprendimenti erano presenti anche in altri tempi, negli anni ‘50, ‘60, ‘70, ‘80, ’90 allora non si certificavano.
Perché certificarli oggi? Giustamente perché non vogliamo tornare ai modi duri di punirli, offenderli che veniva usato un tempo, è cambiato lo zeitgeist, ovvero lo spirito dei tempi. E poi perché è cambiato il mondo con le sue ideologie ed i suoi mezzi.

Pensiamo solo ai giorni nostri e all’uso delle tecnologie
. Sono cambiate le capacità e competenze che la società oggi richiede alle nuove generazioni. In una società in cui il mezzo di comunicazione e produzione principale è il pc, sviluppare quelle capacità e competenze che servono per cavarsela con questo dispositivo è importante secondo alcuni, in modo particolare per le nuove generazioni.

E quali capacità si richiedono?
Capacità nella lettura, nella scrittura e nel calcolo.
Quali competenze? Quelle indicate dalle linee europee del 2018. 
Quali generazioni? Quella dei nati dagli anni ‘90 al 2010, definita “generazione z” o dei “nativi digitali”, bambini digitalizzati sin dalla nascita, per i quali cellulari e tablet sono diventati estensioni del loro corpo, che hanno un orizzonte spaziale molto ampio, possono interagire, grazie ai video, con persone che vivono dall’altro capo del mondo in tempo reale, pur rimanendo de-situati (ovvero non nella stessa situazione fisica), s’incontrano nei social networks e vivono il virtuale come reale quotidiano a quella dei coronials, i nati nell’anno 2020.

Quel che un tempo veniva definito un “bambino difficile” (mi insegnano i maestri che hanno insegnato nella scuola di quegli anni), oggi viene definita “difficoltà”.
Si è trasformata una caratteristica della persona, intesa nella sua globalità, all’idea di un malfunzionamento che pare risiedere nella testa del soggetto e che pertanto sia inerente il mero aspetto cognitivo. Dal sapere del senso comune si è passati al sapere del senso scientifico, della scienza psicologica. Ciò consente di poter sgravare il giudizio morale sulla persona e di poterlo riportare invece alla prestazione. In altre parole si comunica “tu non sei il tuo voto”.

Non sei tu una persona difficile in assoluto ma mostri, in specifiche attività, una difficoltà, quando svolgi questo particolare tipo di esercizio o compito. E questo è bene. Ciò può essere positivo per aiutare i bambini a discendere il loro valore come persone, la loro dignità, il rispetto verso loro stessi e il mondo, dalla prestazioni che effettuano.
Tuttavia, quel che è accaduto, non è stato solo registrare i “mal funzionamenti”, ma attribuire a questi dei nomi, delle etichette, “dsa”, bes”.
Ricordiamo che tali diagnosi vengono formulate in presenza di un’intelligenza del bambino normale, secondo la teoria di riferimento dell’intelligenza umana come fattore unico generale e poi le sue diramazioni particolari. E quella teoria non è l’unica. Negli ultimi anni ho promosso nelle scuole anche altre teorie, più adeguate a riconoscere, in questi tempi anche altro.

Che è successo dopo un po’ che queste etichette hanno iniziato a circolare nel contesto scolastico?
E’ accaduto che qualcuno ha iniziato a sostituire i nomi dei ragazzi con le etichette.
Certo si potrebbe obbiettare: “Ma sono solo acronimi che ci servono per intenderci e che ci servono per sintetizzare una modalità disturbata di processare informazioni.” “Si tratta di capacità che non hanno raggiunto il loro pieno sviluppo.”

Vediamo allora gli effetti reali delle teorie della scienza psicologica e dei relativi codici linguistici. Innanzitutto la qualificazione “ragazzo difficile” oltre al concetto di persona, implica la fatica che anche l’insegnante fa con lui per passargli alcune nozioni, o nel convincerlo a fare gli esercizi.

Dunque, l’adulto è coinvolto e parte della relazione d’insegnapprendimento, non viene assolto rispetto alle sue modalità di lavoro.
Dire che quel ragazzino ha un disturbo specifico dell’apprendimento, esclude invece il docente, il suo operato e la teoria ed i criteri della valutazione che sta assumendo. Si finisce col ritenere che qualcosa non funzioni nella testa e non piuttosto nelle mente del ragazzino, concetto questo di ben più ampio respiro che ci porterebbe a considerare anche le relazioni che egli intrattiene.

I giudizi negativi non piacciono a nessuno
, nemmeno ai bambini più indolenti, tuttavia sarebbe un errore generalizzare.
Notiamo infatti che alcuni colgono tutte le possibilità per fare del loro meglio, incrementare le loro abilità o sfidare il sistema che li categorizza in quel modo, predestinandoli ad un futuro che pare essere già scritto.

Un conto è dire a Francesco: “non riesci a raggiungere la norma nella lettura” “hai tempi diversi quando leggi, rispetto a quello che hanno i tuoi coetanei”, altro è dirlo a Mario.
Francesco potrebbe dare meno peso e mettersi a fare quel che va fatto per incrementare le sue lacune. Mario potrebbe avvertire una ferita profonda al suo sentimento di dignità personale. L’ansia, l’incertezza, la mancanza di stima, il concetto di sé negativo, la rinuncia possono seguire le offese. In sostanza, non è ovvio che la presa di consapevolezza nel bambino di avere una difficoltà, provochi in lui, problemi di autostima o di adattamento, questo se l’adulto comunica con onestà che rappresenta quella diagnosi.
E va detto, siamo tutti neurodiversi.

Che fare dunque?
Occorre muoversi nell’ambito del paradigma della promozione del successo scolastico, nella scuola.
I casi di bambini che fanno particolarmente fatica, in alcuni momenti del loro percorso scolastico, ci sono e sono pochi. E’ impossibile che da un anno con l’altro aumentino del 30% nelle scuole, vuol dire che qualcosa nei criteri di osservazione e lavoro nella scuola non si è ben amalgamato.
Occorre lavorare accettando e riconoscendo le risorse presenti in quel ragazzino.

Ai docenti il compito, oltre che di far di didattica, anche di porre attenzione ad eventuali difficoltà e verificare con lui come superarle.
Se l’insegnante non vi riesce coi suoi tempi ed i suoi mezzi, occorrerebbe oggi, nella scuola che gli psicologi, potessero supportare i docenti, i ragazzi ed i genitori con strumenti specifici, attivando gruppi di lavoro ad hoc, dentro la scuola. Perché non è più valido lo slogan de “non abbiamo ricette”, semmai, possiamo dire non tutti i nodi possiamo o riusciamo a scioglierli, ma non lascerei vani certi tentativi.
Fuori dalla scuola si possono costruire dei metodi di studio personalizzati.

Dott.ssa Marzia Sellini
Psicologa, Psicoterapeuta
Studio in Via Randaccio, n. 30
25128  Brescia (Bs)




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