26 Novembre 2015, 06.47
Donne

Questione di umanità

di Jessica Freddi

Non sono soltanto gli episodi efferati di femminicidio, ma anche il fatto che ad occuparsi di violenza sulle donne sono quasi esclusivamente le donne. Serve un cambio di mentalità


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Secondo i dati del Ministero degli Interni, rispetto al 2014, quest’anno omicidi, lesioni, minacce, maltrattamenti e atti persecutori sulle donne sono in calo.
Si può certamente pensare che ciò sia segno di cambiamento, ma, quando si analizza la cronaca quotidiana, la situazione rimane comunque tuttora molto insoddisfacente: nonostante i dati positivi, è infatti difficile dimenticare i numerosissimi casi che hanno purtroppo come vittime le donne.

Tutti ricordiamo il caso di Melania Rea, riportato alla ribalta qualche mese fa dalla sentenza di condanna al marito: l’uomo, spinto da un movente passionale, dopo 35 coltellate, era addirittura tornato sul luogo del delitto per infierire sul cadavere della moglie.

E più recentemente, il caso di Giordana di Stefano,
20 anni, uccisa dall’ex compagno qualche settimana fa: anche qui il motivo scatenante la furia omicida è stata la volontà della donna di terminare la relazione con l’uomo.

All’estero le cose non sono cambiano.
Adele Bellis, 23 anni, è stata sfigurata l’anno scorso con una secchiata d’acido mentre aspettava l’autobus in una cittadina inglese: l’autore del reato un cocainomane, il mandante l’ex fidanzato, che ha deciso di sfigurare permanentemente la donna, a causa della sua decisione di troncare la loro relazione, dopo anni di violenze fisiche e minacce.

La lista è infinita.

Diversi i modi di uccidere, le situazioni e il contesto, ma ci sono elementi comuni determinanti: i delitti avvengono quasi sempre in casa da parte di ex fidanzati o mariti, spesso sca-tenati da gesti di ribellione della donna.

Ma ciò che non manca mai è la volontà degli assassini di possedere queste donne: la maggior parte vengono uccise perché si stanno ricostruendo una vita, altre vengono controllate fino allo stremo per far sì che non si sentano mai libere.
Sfigurare la propria ex ragazza con l’acido non è forse un gesto estremo di controllo su tutta la sua vita?

Il filo conduttore di tutti questi episodi non è l’amore non corrisposto
o il raptus occasionale di follia omicida, ma una concezione distorta di “possesso”: la violenza sulle donne è una piaga sociale cronica, che affonda le sue radici nella mancanza di vera uguaglianza.

Oggi non mancano testi legislativi cui fare riferimento per affrontare la situazione: nel 1950 la Con-venzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ha aperto la strada a molti interventi in materia di diritti umani.
Anche per la violenza sulle donne c’è un testo specifico, la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata a Istanbul nel 2011, prima carta che riconosce la violenza  sulle donne come violazione dei diritti umani.

Applicabile a qualunque forma di violenza,
la Convenzione da chiare indicazioni agli Stati, ma so-prattutto stabilisce che essi devono garantire che nei procedimenti per atti di violenza contro le donne la cultura, le religioni e le tradizioni, tra cui “l’onore”, non siano addotti come giustificazione.

Il riferimento alle tradizioni è tra i punti chiave: in Italia, fino al 1981, quindi non nel medioevo, l’uomo che uccideva la moglie nello stato d’ira causato da un’offesa all’onore aveva diritto a tutte le attenuanti e alla pena ridotta. Per lo stesso fatto la donna era condannata all’ergastolo.

Anche in Italia la svolta a livello legislativo è arrivata negli ultimi anni: la L. 119 del 2013 si occupa della violenza sulle donne aggiungendo nuove aggravanti, aumentando le misure di tutela, preve-dendo risorse finanziarie mirate per un piano d’azione contro la violenza di genere, e, più di ogni altra cosa, dando finalmente rilevanza penale alla relazione tra due persone.
Queste norme sono ottimi punti di partenza, ma il cambiamento non è facile: i casi di violenza sulle donne non vanno affrontati isolatamente, ma combattuti con una presa di posizione più ampia.

Problema di fondo resta il fatto che ad occuparsi di violenza sulle donne, almeno ad un livello visi-bile al grande pubblico, sono ancora solo donne: la conduttrice di Amore criminale, programma televisivo che racconta le storie di violenza sulle donne, è Barbara De Rossi, vittima di violenze e minacce da parte dell’ex; Ferite a morte, progetto teatrale sul femminicidio, è scritto e diretto da Serena Dandini, accompagnata da molte altre artiste; la campagna di sensibilizzazione contro la violenza di genere #conledonnexledonne è promossa da Avene, casa produttrice di cosmetici.

Per estirpare la violenza di genere
si deve invece agire con un’informazione generale: come dice Diana Russel, “il femminicidio è la violenza estrema da parte di un uomo su una donna, perché è donna”, quindi va eliminata la discriminazione di fondo, che, nei casi estremi porta alla morte, ma che, tutti i giorni, porta a una disuguaglianza sottile, percepita spesso come la normalità.
Perché ci stupiamo delle donne ai vertici? Davvero una donna in un’azienda deve per forza essere la donna-squalo in giacca e pantalone o la stagista in lacrime e isterica?

Eliminare la violenza sulle donne, di qualunque forma,
e raggiungere un’uguaglianza vera conduce al cambiamento in meglio: aggiungere il punto di vista femminile libero e concreto può solo portare allo sviluppo.
La questione della violenza sulle donne deve staccarsi dall’alibi della mentalità, perché in fin dei conti è solo una questione di umanità.





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