Quando l'emergenza finirà

Cose normali, scene di vita quotidiana. Stringere la mano a una persona appena conosciuta, poter abbracciare e baciare le persone a noi care, ritrovarci con gli amici per una cena fuori o un aperitivo, ma anche poter andare a scuola e all’università, recarsi in ufficio, vedere un film al cinema, allenarsi in palestra, frequentare locali pubblici, ora anche semplicemente muoverci dal nostro domicilio e poter viaggiare.

Sono tutte restrizioni assolutamente indispensabili per far fronte a questo virus insidioso, che non guarda in faccia nessuno, giovane o anziano, perfettamente sano o già compromesso da altre malattie. Restrizioni di cui un giorno, si spera non troppo lontano, ci rimarrà solo un duraturo ricordo, ma che per il momento ci hanno bruscamente fatto prendere coscienza non solo della bellezza delle piccole cose che ogni giorno la vita ci offre, ma anche dell’importanza che tutti, indistintamente, attribuiamo alla nostra libertà personale, e della sofferenza che ci deriva dalla sua improvvisa privazione.

E tra i tanti dati relativi al contagio che rimbalzano in questi giorni da un telegiornale all’altro, gli unici di cui non si parla mai sono quelli umani: lo stato emotivo di chi ha contratto il virus e si ritrova isolato in una stanza d’ospedale senza poter vedere nessuno; quello di chi è in quarantena in casa perché presenta i primi sintomi, la preoccupazione di familiari e amici.

Dati che non fanno notizia, ma spavento sì, perché ci rimettono in contatto con la precarietà del nostro stare a questo mondo.

Quando l’epidemia cesserà l’Italia dovrà reinventarsi, rimboccarsi le maniche per riemergere dal baratro, sarà un Paese molto diverso.
Credo che anche gli italiani saranno persone diverse: come reduci di un terzo dopoguerra, avranno l’opportunità di riacquistare entusiasmo verso la vita in un modo nuovo, con la gratitudine di chi sa cosa significa dare davvero valore a qualcosa solo nel momento in cui purtroppo – anche se solo temporaneamente – la si perde.

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