04 Luglio 2020, 08.00
Blog - Circolo Scrittori Instabili

«Il cuel» di Giovanni Zambiasi

di Giovanni Zambiasi



La lettura, che raccontava i tempi in cui la peste aveva attraversato e flagellato la sua terra, aveva catalizzato il suo pensiero nei luoghi dove a centinaia si erano rifugiati per sfuggire alla morte. Ormai era impossibile non visitare la Valle dei Cuel, impossibile trattenere quella voglia stimolata dal libro trovato nella soffitta della nonna. Il sentiero dimenticato l’aveva indicato il vecchio pastore, il Bagolot, ultimo tra coloro che vivevano la montagna e che conoscevano i suoi segreti, le sorgenti e gli antichi percorsi degli uomini che l’avevano abitata.

Angelo aveva preparato la spedizione con la sua maniacale precisione: prima di andare a letto un controllo veloce alla check-list: tutto era in ordine nello zaino, sarebbero mancate solo cose che aveva dimenticato di scrivere, restava solo la notte che sarebbe passata veloce. Sorgeva il sole dal Monte Baldo e il riflesso nello specchio retrovisore abbagliava Angelo che, impegnatissimo nella guida, a fatica scansava i sassi che i cinghiali avevano fatto rotolare sulla strada sterrata che risaliva la valle.

Arrivato!

L’ultima piazzola prima del sentiero accoglie il piccolo fuoristrada. Parcheggiato per bene al riparo sotto un grande acero avrebbe atteso il ritorno di Angelo. Nascoste le chiavi dell’auto nella custodia impermeabile sotto un sasso anonimo, per evitare di perderle lungo il percorso, calibrate le cinghie dello zaino e aperte le racchette telescopiche, Angelo inizia il cammino.

Sicuro come un guerriero aveva vestito le sue armi migliori: la fotocamera go-pro fissata al petto sarebbe stata la testimone dell’avventura e la nuova aggiornatissima Hicking App sul telefono mobile a compensare gli appunti di percorso svelati dal vecchio pastore e a registrare il sentiero. Erano passate ore ma la foresta sembrava opporsi all’essere penetrata. Angelo aveva rinunciato alle racchette e procedeva come poteva, passando sotto le ramaglie intricate, tagliando qua e là i rami con la sua fiochela (la roncola lasciatagli dal nonno) avanzava a fatica seguendo gli indizi della vecchia mulattiera. Malgrado i 400 anni trascorsi, il tracciato era ancora visibile, disegnato sul versante Sud del monte Pracalvis da picconi esperti, ricordava ad Angelo la fatica degli uomini che muovevano carbone e legna per scaldarsi, che spostavano fieno e foglie per i loro giacigli e per la lettiera dei loro animali.

Cosa avrebbero detto ora, alla vista della foresta che indisturbata aveva ripreso i suoi territori?

Pensieri veloci che svanivano nel sudore. Mancava poco, a breve avrebbe dovuto incontrare i primi Cuel, roccioni strapiombanti a forma di tettoia che con chiusure in legno e pietre venivano trasformati in stanze dove cucinare sul fuoco, riposare la notte, rifugiarsi durante i temporali. Uomini e donne scappati da case confortevoli e calde per sfuggire l’orrore di una morte dolorosa, trasformati in selvatici viaggiatori del tempo. Il tempo separato dallo spazio, pochi chilometri a separare la Preistoria dal Rinascimento che evolve nel Barocco, troppo veloce e incurante di aver dimenticato la terra, la madre di tutti noi. Asciugandosi il sudore dagli occhi e alzata la testa lo vede: il Cuel grand, il primo di molti ancora nascosti. Un muro di roccia conglomerata con un tetto a sbalzo, rivolto a Ovest, proprio lì davanti a lui nel luogo indicato dal pastore.

Nel suo angolo più protetto: il segno nero lasciato dal fumo di quel fuoco che aveva scaldato molti inverni, ai lati fessure profonde modellate da corpi stanchi che proteggevano dalla notte, poco distante l’ajal dove veniva cotto il pojat per fare carbone. L’acqua non era lontana, la si poteva sentire gorgogliare nella valletta a poche decine di metri, al di là di un castagneto antico che ancora offriva i suoi frutti agli abitanti del bosco. Seduto su di un sasso con alle spalle il cuel, lo sguardo perso nel bellissimo tramonto, Angelo aveva giusto il tempo di prepararsi per la notte.

La Go-Pro non era servita a molto, aveva camminato tutto il tempo nella macchia, chinato quasi a strisciare, e il telefono gli era servito ancora meno: la traccia gps a linee rette per compensare gli spazi con assenza di segnale, non dava nemmeno l’idea del percorso seguito. Lui, però, avrebbe ricordato. Gli sarebbe bastato chiudere gli occhi per vedere ogni ramo, ogni passaggio, vedere la foresta e quel filo sottile che l’aveva guidato, filo fatto d’istinto e di parole che gli avevano trasmesso i ricordi del pastore. Spegne tutto, non serve altro che il sacco a pelo e il piccolo fuoco per cuocere le salsicce che emergono dallo zaino (già mezze cotte dal calore della sua schiena durante la strada). Sono buonissime, a conferma della teoria della cottura lenta, e cosa dire del vino, il Groppello che zampilla dalla borraccia?

Ricorda la leggenda di Polifemo e Ulisse, il vino degli Dèi. L’acqua freschissima della sorgente ha sostituito quella caldissima e ormai morta della bottiglia, questa è viva e dona vita, energia dimenticata che impedisce di dormire nel giaciglio di foglie per ammirare il cielo stellato di giugno.

La stanchezza della giornata oppure il vino degli Dèi hanno però la meglio sulla bellezza del cielo che pian piano si spegne e accompagna Angelo nel sogno, dimensione senza tempo dove si possono incontrare persone mai viste ma conosciute, mescolate nei dettagli in un mosaico di percezioni che di tanto in tanto si fanno ricordare per sempre.

Il mattino arriva presto nella foresta, il popolo del cielo inizia la sua giornata con il canto e la luce inonda la valle. Angelo ancora intorpidito può sentire tutte le ossa che gridano di alzarsi, sgranchirsi. La check-list prevedeva anche una piccola moka, la Bialetti tre tazze, non c’era paragone con la Go-Pro incapace di rendersi utile. Ravvivato un po’ di fuoco, tre sassi ben piazzati, e il fornello è pronto… il caffè macinato, l’acqua fresca, avvitare e via…

Oggi non arriva nemmeno al cervello l’idea di dare un occhiata a Facebook e, comunque, non c’è connessione. La moka va attesa fino all’esplosione di aroma che anticipa il gusto, e non fa rimpiangere lo zucchero (mancante nella check-list). Angelo ha un giorno intero davanti a sé per esplorare il passato. Il costone ospita un villaggio, piccoli e grandi cuel che hanno offerto l’alternativa alla morte insegnando la condivisione e la collaborazione. Ecco l’antica zona agricola, ricavata dal terrazzamento e dalla trasformazione della terra ripulita dalle pietre e liberata dalle radici per offrire spazio al farro e agli ortaggi.

Angelo ormai vede attraverso gli indizi del tempo: vede il passato, capisce il lavoro fatto, con le mani di molti trasformati in giganti. I vecchi viottoli, alcuni spariti e altri manutenuti dai cinghiali, la bellezza dei panorami che appaiono e scompaiono tra le foglie, la gioia di essere il solo a vedere e sentire luoghi che le foto non potrebbero scannerizzare, il vento e il sole e… all’improvviso, comparso dal nulla, un capriolo lo riporta alla foresta. Non ha paura, si guardano per secondi infiniti comprendendosi l’un l’altro, prima di continuare sui rispettivi cammini. La sera arriva, ma gli ha dato modo di disegnare una mappa, rilevare la posizione dei singoli cuel, indicare la sorgente e i campi terrazzati ormai invasi dai carpini e dai frassini.

La mappa fermerà il tempo e si trasformerà in efficace fotografia. Stasera il pane del giorno prima con il formaggio di Luca (allievo e futuro Bagolot), il resto del vino e la fetta di torta risparmiata la sera prima concludono il giorno che sparisce dietro lo Zingla dedicando l’ultimo raggio alla Valle dei Cuel.

Il sasso ha svolto bene il suo compito, le chiavi sono ancora lì, l’acero felice di togliersi quella responsabilità lascia partire il fuoristrada che più adagio di quando era arrivato si allontana verso il lago, verso il presente. Angelo impaziente di rivedere la sua donna si accorge di aver dimenticato la videocamera al cuel, un dono inconscio al passato? Oppure l’inconscia consapevolezza che il presente non ne ha bisogno?

Accelera e non vede l’ora di parlare e trasferire i rumori e i colori della valle attraverso le sue sensazioni e i suoi pensieri, che mai come prima erano stati lasciati liberi di crescere, di connettersi e divenire idee. Il telefono scarico non lo preoccupa più, non serve altro che chiudere gli occhi e iniziare il racconto.

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Per gentile concessione del Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.





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