12 Aprile 2020, 08.00
Valsabbia
L'opinione

Due (o tre) pensieri sul coronavirus...

di Germano Bonomi

Un’analisi “a posteriori” delle prime settimane di emergenza, a cura del prof. Germano Bonomi, valsabbino, docente di Fisica Sperimentale presso l’Università degli Studi di Brescia


Terra incognita. Ci siamo svegliati un giorno e quello che ci circondava era un mondo nuovo, diverso da quello che avevamo conosciuto solo fino a poche settimane prima. Tutto quello che abbiamo vissuto, e stiamo ancora vivendo, entrerà nei libri di storia, ma è stato difficile orientarsi e comprendere fino in fondo quello che ci stava, ci sta, accadendo. E penso in modo particolare a tutti quelli che hanno posizioni di responsabilità, amministratori pubblici o privati, che hanno dovuto prendere decisioni rapide senza avere il tempo di soppesare e prevedere tutte le implicazioni e le complicazioni di scelte dettate dall’emergenza.

Qualcosa del genere in realtà
è già successo, circa 100 anni fa, quando tra il 1917 il 1918 una nuova forma influenzale, chiamata allora “la spagnola” per aver causato la morte del Re di Spagna, flagellò la terra provocando un numero enorme di decessi, dell’ordine delle decine di milioni. Rileggere la cronaca di quegli eventi ci può aiutare in un certo senso a comprendere e a interpretare quello che sta accadendo oggi. Rivedere le immagini dell’epoca con ospedali soverchiati dal numero di pazienti, gruppi di persone che si muovono in città indossando delle mascherine, o riguardare le curve degli andamenti temporali dei decessi, ci fa capire che in fondo quello che viviamo ora è “nuovo” non perché sulla terra non sia mai successo, ma solo perché nessuno di noi l’ha sperimentato in prima persona. La specie umana ha convissuto con epidemie e pandemie da sempre. Questa volta però il mondo che il nuovo virus ha travolto è diverso dalle sue versioni precedenti, è un mondo interconnesso, un mondo globalizzato, un mondo che dipende moltissimo dalla fiducia nel futuro, un mondo in cui la vita umana di ogni persona conta.

E diciamocelo: pur essendo successo molte altre volte nel nostro passato di specie umana, non eravamo preparati. Non eravamo preparati noi in Italia, ma non lo erano nemmeno tanti altri paesi industrializzati e avanzati, come per esempio la Spagna, il Regno Unito o gli Stati Uniti, la prima potenza commerciale mondiale, che potrebbe pagare il prezzo più alto di questa pandemia. Eppure, abbiamo avuto parecchie settimane per prepararci al peggio. La Cina ha isolato la città di Wuhan e la provincia di Hubei il 23 di gennaio. Circa 60 milioni di persone sono state costrette nelle proprie abitazioni per un tempo indefinito, mentre il numero di contagi era ufficialmente ancora limitato a qualche centinaio. A quel punto tutti sapevamo, o in ogni caso potevamo sapere, che il pericolo determinato da questo nuovo virus era davvero enorme. Eppure, eppure … non abbiamo agito con determinazione e tempestività. Le ragioni sono molte e variano da paese a paese, ma probabilmente ci sono delle motivazioni comuni.

La prima penso sia legata alla psicologia umana, a come ognuno di noi percepisce il pericolo. Quando è lontano, sia spazialmente che temporalmente, tendiamo a sottovalutarlo. “Succede ad altri, non a me” è sostanzialmente quello che diciamo a noi stessi per autoconvincerci. Un classico esempio è quello che riguarda le conseguenze del fumare. Tutti sanno che può provocare un tumore, ma “non ora e forse non a me”. E purtroppo la cronaca di questi mesi ci insegna che nemmeno i capi di stato, e in generale i “decision makers”, sono immuni da questo innato meccanismo difensivo.

La seconda ragione è legata alla natura stessa del virus, alla sua modalità di contagio e alla sua evoluzione sia spaziale che temporale. In un mondo così interconnesso, il virus non ha trovato barriere, si è mosso in tutte le direzioni e in breve tempo ha raggiunto tutto il globo. Anche in questo caso, era prevedibile, ma nessuno l’ha davvero considerato seriamente. Il virus inoltre ha una capacità di contagio elevata, ovvero in tempi molto rapidi può raggiungere moltissime persone e poi moltissime altre. La velocità di contagio è sicuramente più elevata della nostra capacità (umana) di renderci conto di quanto possa essere pericoloso.

L’evoluzione temporale, in assenza di interventi esterni, ha un andamento esponenziale. E si tratta di un’evoluzione con cui non abbiamo molta familiarità, che è difficile da comprendere. In quasi tutte le nazioni, il fatto che all’inizio il numero di casi conclamati fosse basso è stato interpretato come un elemento positivo. Ma pochi contagiati oggi, significano molti contagiati nel giro di una settimana e nel giro di un mese sono così tanti che non ci si spiega come possa essere successo. Con un raddoppio di casi ogni 3 giorni, ci vogliono 30 giorni per passare da 1 a 1000 contagiati, ma con altri 30 giorni, senza interventi, il numero totale sale ad un milione. E se tutto ciò non fosse sufficiente, il virus ha un’altra caratteristica che lo rende ancora più insidioso, ovvero che nella maggior parte dei casi determina solo sintomi lievi, molto simili ad una banale influenza. Questo aspetto, che a primo avviso potrebbe essere considerato un bene, fa si che circa la maggior parte delle persone positive, per molti giorni, possano circolare liberamente contagiandone inconsapevolmente moltissime altre. In questo modo, anche se i casi gravi rimangono limitati in termini percentuali, il loro numero aumenta notevolmente in termini assoluti.

Quando questo numero, ovvero quando le persone che hanno bisogno di cure mediche, supera una certa soglia, allora il sistema sanitario va in crisi. Gli ospedali non sono più in grado di accogliere tutti i pazienti che ne avrebbero bisogno. Senza tener conto dell’effetto collaterale che non possono più occuparsi di tutte le altre patologie, anche di quelle più gravi. In altre parole, è nelle strutture sanitarie che ha luogo il vero dramma umano di queste settimane e dei mesi a venire. I medici, gli operatori sanitari e il personale di supporto che sono in prima linea, stanno vivendo settimane terribili. Non possono aiutare tutti nel migliore dei modi e spesso non hanno nemmeno gli strumenti per farlo. E in molti casi non hanno nemmeno tutto il materiale protettivo per sé stessi. Rischiano la propria vita ogni giorno. Il sistema dovrà ricordarsi di loro quando l’emergenza sarà passata.

Negli ospedali muoiono quindi molte persone. In Italia, per ora, stiamo pagando il prezzo più alto in termini di vite umane. In altre nazioni, a parità di contagi, il numero di decessi è molto minore. Ci sono diverse spiegazioni e molto probabilmente un insieme congiunto di fattori sta giocando a nostro sfavore. Sicuramente il fatto che l’età media in Italia sia tra le più elevate al mondo determina una maggiore percentuale di fatalità, dal momento che gli effetti sul virus aumentano con l’età del contagiato. Un altro aspetto importante da considerare è il fatto che stiamo effettuando tamponi solo ai pazienti che hanno sintomi evidenti. Dal momento che la grande maggioranza ha sintomi lievi, significa che il numero dei nostri contagiati è grandemente sottostimato. Questo, artificialmente, aumenta la percentuale dei decessi ma, d’altra parte, significa anche che il contagio in Italia, come del resto in tutti i paesi maggiormente colpiti, è molto più diffuso di quanto dicano le statistiche ufficiali. Un’altra motivazione è legata alla qualità e alla “dimensione” del sistema sanitario. Le regioni più colpite in Italia sono anche quelle in cui, secondo le statistiche nazionali, la sanità funziona meglio. Il motivo va quindi ricercato non tanto nella qualità, ma piuttosto nella “dimensione”, sia in termini di personale (numero di medici e di operatori sanitari) che di strutture e di attrezzature. Un dato per tutti: la Germania, pre-crisi, era dotata di circa 25000 unità di terapia intensiva, l’Italia di circa 5000.

Una volta che l’ondata ci ha colpito, per evitare il collasso del sistema sanitario, abbiamo scelto di seguire la strada indicata dalla Cina, ovvero di isolare e chiudere (quasi) tutto. Abbiamo attuato il cosiddetto “lockdown”. E così hanno fatto, dopo di noi, la Spagna, la Francia, la Germania, il Regno Unito e moltissime altre nazioni in tutto il mondo. Con una differenza sostanziale. In Cina la chiusura è stata totale ed è stata “accettata” da tutti immediatamente. Negli stati occidentali, la chiusura è stata graduale e mai completa. E non sempre i cittadini hanno rispettato da subito le direttive di isolamento. Chiaramente anche il risultato delle misure è stato diverso. Nella regione dell’Hubei e nella città di Wuhan, dopo due mesi, del virus non c’è quasi più traccia e piano piano stanno ritornando alla vita normale, sebbene siano consapevoli di dover convivere con il rischio che il virus ritorni a circolare. Da noi la curva dei contagi fa fatica ad “appiattirsi” e di conseguenza l’emergenza durerà per più tempo. Difficile dire oggi per quanto più tempo. Le misure di “distanziamento sociale” come vengono ora chiamate, hanno il pregio di rallentare il contagio, con il lodevole risultato di evitare il collasso del sistema sanitario, ma sostanzialmente, se non sono totali, spalmano gli effetti su un periodo più lungo dilatando quindi i tempi di ritorno alla normalità.

Ma c’è un metodo alternativo? In effetti la Corea del Sud, e altri stati asiatici limitrofi, hanno intrapreso una via diversa. Un approccio capillare e chirurgico che possa individuare in maniera repentina i cluster, o anche i micro-cluster, di contagio per isolarli e quindi spegnere a uno a uno i focolai non appena si manifestano. Questa strategia sembra funzionare. Attraverso un attento lavoro di indagine si possono individuare tutte le persone con cui un nuovo positivo, nelle due settimane precedenti, è entrato in contatto, per poterle quindi isolare evitando che a loro volta possano essere veicoli di contagio. La tecnologia in questo caso può essere di aiuto. Grazie all’installazione di una App di tracciamento sul proprio telefono, e dando il proprio consenso all’invio dei dati ad un centro di raccolta dati nazionale, è possibile farlo in maniera rapida e molto efficace. Il prezzo da pagare è chiaramente quello di rinunciare, limitatamente al periodo dell’emergenza, ad un pezzo della nostra privacy. Questo sistema è chiaramente possibile solo quando il numero di contagi non è molto elevato e non è plausibile pensare di attivarlo nella nostra situazione attuale.

Tuttavia, ora che stiamo pensando e pianificando la fase 2 di uscita dal “lockdown”, quando il numero di casi sarà diminuito, potrebbe essere una strada percorribile o comunque da prendere seriamente in considerazione anche da noi, per permetterci di convivere con il virus per i prossimi mesi. Il terzo approccio, quello dell’immunità di gregge, suggerito e vagheggiato da alcuni Stati come Regno Unito e Svezia nelle prime fasi dell’emergenza, ma poi rinnegato nel giro di poco tempo, semplicemente non può essere applicato nei nostri sistemi nazionali. La nostra evoluzione storica-sociale, ci ha portato fortunatamente a considerare la vita un bene di valore assoluto. Lasciare che il virus circoli liberamente significa che il numero contemporaneo di persone che hanno sintomi gravi sia così elevato che alla fine i decessi sarebbero molti di più che controllando la sua evoluzione. In un ipotetico paese medioevale senza sistema sanitario e con una bassa età media della popolazione probabilmente questo metodo avrebbe potuto funzionare. Con un tasso di mortalità vicino all’1%, ci sarebbe stata la possibilità che il virus non determinasse grandi perturbazioni sociali o economiche. Le moderne nazioni stanno invece sacrificando la propria vita sociale e rischiando la tenuta economica del sistema per evitare la perdita di un numero elevato di vite umane.

In realtà non è ancora chiaro a tutti quelle che potranno essere le conseguenze, in modo particolare economiche, di questo “lockdown” con il conseguente blocco prolungato delle attività commerciali e produttive. Chiaramente ci saranno ripercussioni e saranno sicuramente notevoli. Se questo significherà una recessione profonda o solo un assestamento globale del sistema, lo sapremo solo nei prossimi mesi o meglio nei prossimi anni.

In inglese c’è un detto che recita: “What doesn’t kill you, makes you stronger”. Ovviamente questa fase di emergenza terminerà, se non fra qualche settimana, probabilmente fra qualche mese, e avremo l’opportunità, se sapremo coglierla, di uscirne più forti. A livello di singoli, facendo ordine nelle priorità, cercando di capire quali sono gli aspetti più importanti della nostra vita e tralasciando quelli più futili. A livello di società cercando di ri-direzionare gli investimenti pubblici e privati verso obiettivi “alti”, ovvero che tendano a migliorare le condizioni di vita di tutti, ad una maggiore distribuzione della ricchezza, ad un maggior rispetto dell’ambiente in cui viviamo.

L’Europa in questo senso potrà giocare un ruolo fondamentale. Siamo fortunati, e noi italiani forse più di altri paesi, che esista l’Unione Europea. Facciamo parte di una comunità più grande che ci potrà quindi spalleggiare ed aiutare ad uscire da questo difficile momento. Ci vorrà un po’ di tempo e di discussioni, mettere d’accordo tutti non è mai un processo facile, i punti di vista sono sicuramente diversi, per esempio tra i paesi del Nord e del Sud Europa, ma alla fine sono convinto che la decisione migliore verrà presa e insieme potremo affrontare meglio le sfide del futuro e la competizione con Est (Cina) e Ovest (USA): “Together we stand, divided we fall”.

Una considerazione finale. Come avremmo affrontato tutto questo senza internet? Certe volte penso davvero che il World Wide Web sia letteralmente una rete che, anche in questo difficile momento, sta tenendo unito il nostro mondo.

Germano Bonomi
Prof. Ordinario di Fisica Sperimentale
Università di Brescia



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