15 Maggio 2015, 09.20
Valsabbia
L'avventura

Due mature valsabbine in città

di Mirella Prandelli

Il viaggio a Brescia, anche solo per una visita di controllo di routine in ospedale, è sempre un’avventura straordinaria per due simpatiche e sagaci nonnine della valle


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Dire il nome non sarebbe elegante, l'età neanche per sogno. Ci basti sapere, per questa pittoresca storiella, che si tratta di due signore nate e cresciute in un piccolo comune della Valle Sabbia, non auto munite, che raramente raggiungono autonomamente la città e che ancora più raramente, in età più giovane, ne avevano l'occasione. Alternativamente, si occupavano delle mansioni di cui necessitava il grande casale in campagna, con tanto di famiglia numerosa, animali da accudire e campi da lavorare.

La motivazione del viaggio è naturalmente quella di una routinaria visita medica. Per il pomeriggio in città, anzitutto, è bene scegliere accuratamente l'abbigliamento. Un po' come quando si va in gita: le vestaglie di casa, seppur sempre vistose ed eleganti, lasciano il posto per un giorno, a cardigan di cotone dai colori pastello, scarpe immacolate e lucide catenine prese per l'occasione dal comò della camera da letto, dove si custodiscono, sotto un abbondante strato di biancheria, i doni dei numerosi sacramenti presi dagli ancor più numerosi figli.

Ah, per comodità narrativa, ci serve un bel nome per le protagoniste del nostro racconto, un nome fittizio. Le pötele dela Filanda.

Prima di partire, ci vuole un bel caffè: tazzine con decorazione floreale e moka strausata, così è ancora più buono. Lo versiamo ancora bollente e ovviamente, provvediamo subito alla correzione. Cognac, decisamente. «Piano, piano, Hé de no tei vedet i dutur co la siringa!», la più razionale ammonisce l'altra, abituata a una media di cinque caffè corretti al giorno. Forse siamo un po' in ritardo ma «Hé tanto gli orari gliè tanto per aìc ön idea. Dopo chi che riva i va deter pröma!»

Pronti a partire. Dopo una movimentata salita in macchina, perché oggi i sedili si muovono e non si è più abituate, si parte alla volta di Brescia. «Ciapa mia le galerie che le me fa pöra. Gliè trope hcüre. Nom da le Coste valà che lè mei!»

Arriviamo in ambulatorio. La coda di fuori. «Infermiera guardi che le pötele dela Filanda (naturalmente ha usato il nome vero) sono arrivate!» così si annuncia la più temeraria. L'infermiera, visibilmente indaffarata, capisce e si affretta a segnare sull'elenco. «Ecco, brava signorina. Noi ci sediamo lì, guardi che siam pronte!». Comincia la rassegna dettagliatissima dei commenti dei défilé dei colleghi pazienti, rigorosamente coetanei. «Oh, che bèla chela vistina lè,  varda varda come la hta bè chela sciura lè!» comincia una e l'altra «He, He l'è vera. Varda invece chela fomla lè, chela co la hotana negra, la ghelaa mia l'otra olta la fahadüra al brah poarina! He harala fada mal? Adeh ghe dumande!». Il tutto in un non meglio specificato idioma ibrido tra l'italiano e il dialetto perché, se da una parte ci si ricorda della formalità della situazione, dall'altra le radici non mentono.

Arriva il nostro turno «Dove sono nostre le veline di una volta? Eccole, tocca a voi», l'infermiera ha sapientemente capito il miglior modo per comunicare con noi. Si vede che è abituata. Dopo che «No en del bagn a camudam perché dal dutur go fat en freha!» e «Vöt la crema, chela del reclam?», siamo pronte per il ritorno.

«He dai, biom ergot za che hum en viöla», al bar un altro caffè, corretto cognac, anche questo, ma non prima di aver controllato attentamente la tovaglietta del tavolino, di cui con una veloce occhiata e un test tattile in incognita si riconosce la tracciabilità del tessuto e della manifattura. 



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