08 Giugno 2015, 06.46
Valsabbia
Racconti del lunedì

Mai sgurlì 'na pianta de s'ciafù

di Ezio Gamberini

Un paio di mesi fa abbiamo riesumato le antiche tabelle per iniziare a correre che utilizzai alla fine dello scorso millennio...


...si trattava della preparazione a quella che nel novembre 1999, a New York, sarebbe stata la prima delle mie diciannove maratone disputate, fino al maggio 2008.

Stavolta però ci sarà anche Grazia, la quale da ragazzina, come ho già avuto modo di narrare in altri episodi, filava come una gazzella nella Polisportiva locale.

In nove settimane, con tre allenamenti, di solito al lunedì, mercoledì e venerdì, arriveremo a correre trenta minuti senza sosta, ma già alla sesta dobbiamo affrontare l’ultima sessione della settimana correndo per venticinque minuti a fila, senza fermarci.

Il percorso è quello usuale, sulla ciclabile che fiancheggia il Chiese, risalendo la valle.
Cinque minuti a passo veloce, e poi partiamo di corsa.

In senso contrario, cioè nella direzione in cui scorre il fiume, che solitamente scende a valle, sta sopraggiungendo una ciclista biondocrinomunita con mini-tuta bianca attillatissima e pelle color ebano a rivestire forme giunoniche davvero pregevolissime … è proprio una gran bella ragazza:

“Ciao”.
“Ciao”, le rispondiamo. “Boh, non so chi è, ma l’ho salutata, mi ha fatto un sorriso a trentadue denti…”, dice Grazia. “Ma sei proprio sicura che quel sorriso non l’abbia riservato esclusivamente a me?”, le rispondo candidamente, con il risultato di rimediare il primo scappellotto della seduta che mi arriva a tradimento sul coppino.

Trascorrono cinque e poi dieci minuti, in assoluto silenzio, con l’andatura che è leggermente aumentata.

“Guarda che bei fiori…”, cerca di farmi notare l’animo gentile.

“Risparmia il fiato, perché ne avrai bisogno!”, le rispondo brusco. Poi al quindicesimo minuto, quando sento che ha un po’ di fiatone, cerco di fregarla:
“Com’è la ricetta della besciamella?”.

Non ribatte. Forse il livello della conversazione è troppo basso e l’argomento culinario ormai logoro. Aspetto un paio di minuti e cambio tattica, puntando a un dialogo ai vertici dell’eccellenza:
“Che ne pensi della congiuntura internazionale?”.

Mi risponde con una brutta parola, ma brutta brutta, che mai mi sarei aspettato. Non mi sogno neppure di evocarla, al massimo posso rivelare che si tratta di un sostantivo di cinque lettere che contiene tre “c” e due “a”…

Al ventesimo minuto ci riprovo: 
“E per la pace nel mondo, a cosa rinunceresti?”.
Adesso, finalmente, comincia a fare un po’ di fatica, impegnata a non mollare, ma riesce ad aprire la bocca e con grande sforzo farfuglia:
“A…”.

“A… a che cosa, anima mia? All’egoismo che ci pervade? All’amor proprio? Alla calunnia, all’invidia, alla prepotenza?All’egocentrismo smodato? Alla nostra incapacità di rinunciare non solo al necessario, ma anche al superfluo per aiutare il prossimo…?”.

“No…. Al….”.

“Cosa, cosa, luce dei miei occhi, al denaro? All’opulenza? All’accidia? All’ingordigia? All’ira che ottunde i nostri cervelli, inducendoci ad azioni e reazioni riprovevoli, alla superbia che ci fa credere onnipotenti e superiori a tutti, alla vanità che ci rende ciechi, alla maldicenza che è più pericolosa di una spada, ai pettegolezzi gratuiti e velenosi...?”.

“No, no… - balbetta Grazia stentatamente - …al m….”.

“Ahhh, stella della mia vita, forse ho capito: al male che si diffonde per il nostro sfrenato individualismo? Al marciume che ci circonda? Al mondo moderno con i suoi orpelli? Su, dimmi, angelo mio – le chiedo con tutte il fiato che mi è rimasto in corpo, forse l’ultimo, perché anch’io sono ormai alla frutta – dimmi, a che cosa rinunceresti per la pace nel mondo?”.

Sembra che stia “tirando gli ultimi”, ma è solo un’impressione, perché la reazione è inimmaginabile:
Al… al…AL MARITO!”, esplode con un urlo liberatorio la traditrice, e aumenta l’andatura, mentre io resto lì come un baccalà, distrutto e spompato.

Ci rivedremo dopo dieci minuti, a casa, con lei che mi aspetta beffarda davanti al cancello, intenta a chiacchierare amabilmente con i piccoli di via don Belli, che le chiedono notizie del “l’Ezio” (dovete sapere che per i bimbi che popolano il mio villaggio, non sono “Ezio”, ma “Lezio”: “Ciao Lezio”, mi dicono; la piccola all’ultimo anno di asilo, che ogni volta mi sorprende per la sua intelligenza e il vocabolario davvero ricco e appropriato, la quale porta lo stesso nome della nostra ultimogenita che si trova all’estero per studiare, l’altro giorno mi ha domandato: “Ciao Lezio, come sta l’altra Chiara?”, mentre all’amichetta che le chiedeva se dopo pranzo potevano giocare insieme, ha risposto: “Certo che sì!”, facendomi sbellicare dalle risate…).

Comunque, alla fine, la morale di questa storia c’è, ed è questa:
Mai sgurlì ‘na pianta de s’ciafù, perché prima o dopo i burla zo, e iè sauricc”.



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