16 Giugno 2009, 07.00
Vestone
Ricordando Rigoni Stern

Gli alpini in Convento

di Giancarlo Marchesi

Ecco uno scritto di Mario Rigoni Stern che esattamente un anno fa, in silenzio, ci ha lasciati per ricongiungersi con i suoi amati alpini, dispersi nella desolata steppa russa.

Esattamente un anno fa, il 16 giugno del 2008, si congedava dalla vita il sergente del Battaglione Vestone, Mario Rigoni Stern. Scrittore di fama internazionale, ha testimoniato al mondo le sofferenze degli alpini delle nostre valli sul Don e raccontato con forte attaccamento e passione i boschi, gli animali, la vita nelle zone montane con un particolare riguardo al suo Altopiano, quello di Asiago.

Legatissimo ai suoi alpini bresciani e alla Valle Sabbia, Rigoni ha partecipato più volte nel corso degli anni a manifestazioni celebrative dell’Ana e del gruppo Avis valligiano.

In particolare nel 1990 partecipò all’inaugurazione della chiesa dell’ex Convento di Mocenigo che il gruppo Ana di Vestone riportò a nuova vita dopo lunghi e impegnativi lavori di restauro. Il quella occasione, lo scrittore asiaghese volle regalare ai lettore del bollettino parrocchiale «El Vistù» un breve saggio che ripercorreva le vicende che videro protagonisti da un lato il Convento e dall’altro gli uomini della valle che lungo i secoli cambiarono più volte destinazione d’uso al quel fabbricato. Da convento venne trasformato in filanda per poi diventare una caserma alpina e successivamente una prigione militare.

Per rendere omaggio a Mario Rigoni Stern, Vallesabbianews ripropone ai propri lettori le dense pagine di quel breve saggio storico.


Gli alpini in Convento 

A osservare come mutano destinazione i fabbricati si hanno lezioni di storia e di  evoluzione nei costumi: è come leggere un trattato, un saggio un romanzo sul passato che invece di parole è fatto di cose concrete: pietre, intonaci, pitture, volumi inseriti nel paesaggio della nostra terra. Il materiale, il modo di costruire, l’uso della costruzione, il luogo ci riportano anche le persone che in quel  posto sono vissute, hanno lavorato, sono morte.
 
Questo ho appreso tanto tempo fa, quando ho incominciato a guardare con altri occhi che non quelli di ragazzo; quando ho incominciato a  pensare sui fatti e sul perchè delle vicende umane. Certe volte, poi, questa lettura mi appare immediata, concreta, ed è come se improvvisamente spalancasse una porta che mi fa entrare in quel tempo.
 
Questo stato d'animo mi è capitato anche la primavera scorsa quando degli amici mi invitarono a visitare una costruzione dove alcuni uomini stavano lavorando al restauro. Era a Vestone in Val Sabbia.
 
Questo fabbricato era stato un convento di frati francescani. Sorto agli inizi del XVII secolo, un poco fuori dal paese nella piana di Mocenigo e alto sul fondo della valle dove scorre il Chiese; a dar mano al lavori fu il padre cappuccino Marcantonio da Brescia, che forse si sentiva stretto nella casa madre. In quel tempo qui governava la Repubblica di Venezia; la ricchezza di queste terre era l'agricoltura e il ferro che veniva scavato nelle montagne dell'alta Val Trompia e fuso a Bagolino. Ma più che per questo era per i traffici e le vie di comunicazione con la Lombardia e la Svizzera da una parte, con il Trentino e l'Austria dall’altra che la Serenissima teneva cari questi territori oltre il Garda.
Trascorsi pochi anni dopo il passaggio dei lanzichenecchi, dilagò la peste di manzoniana memoria e quei frati di Mocenigo ebbero il loro daffare per curare gli ammalati nei lazzaretti. assistere i moribondi e seppellire i morti: le opere di carità spirituali e temporali ebbero grande occasione per essere applicate lungo tutta la Val Sabbia come del resto, in tutte le altre valli.
 
Passò anche quel tempo, si ritornò più a nascere che a morire come sempre capita dopo una epidemia o dopo una guerra; i paesi in alto si ripopolarono e quando i frati del convento di Vestone andavano dì paese in paese per la cerca, ritornavano tra le loro mura con le bisacce rigonfie; e quando a Pasqua i peccatori più incalliti che non volevano confessarsi dal loro parroco andavano dai frati, dopo i sacramenti, avevano sempre un bicchiere di vino e una buona zuppa di trippe.
Fu in quegli anni, verso il XVIII Secolo, che le montagne e le valli ebbero la massima popolazione presente: ogni ripiano veniva dissodato, i fianchi dei monti esposti a mezzogiorno venivano roncati, spianati, terrazzati e coltivati; i pascoli venivano sfruttati fino al limite della vegetazione; i boschi di ceduo sfruttati per il carbone, gli altifusti per legname da opera. Si lavorava dall'alba al tramonto dando tanto sudore per mangiare appena il necessario. Eppure si cantava!
 
Ma passano le vicende umane. Se passano! Repubblica Cisalpina, Lombardo-Veneto, Napoleone, Metternich, Radetzky, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Pio IX e il vecchio convento di Mocenigo, dopo che Venezia nel 1769 aveva allontanato i frati con la forza, dopo che Napoleone l'aveva fatto mettere all'asta, restava lì dove i frati l'avevano costruito. I muri si scrostano, le pitture della Chiesa vengono scarabocchiate con no­mi e disegni profani, i cavalli e i sol­dati di passaggio lordano il chiostro e i cortili. Ma sotto, in un angolo verso gli orti e a ridosso della mura della chiesa, sotto una pietra e tra la sabbia rimangono a custodia del luogo le ossa dei frati che nel passare degli anni erano stati lì seppelliti.
 
Intanto, dopo che l'Italia era stata unificata sotto il simbolo dei Savoia, nel 1871 vengono istituite, con un anomalo decreto, le prime Compagnie Distrettuali Alpine, che poi daranno discendenza ai battaglioni alpini. Nel 1887 nasce il battaglione Rocca d'Anfo con le 53, 54, 55 compagnie alpine e nello stesso anno il Demanio Militare acquista da Mario Pialorsi, ultimo proprietario, l'ex convento per farne la caserma, intitolandola a Giovanni Chiassi, garibaldino morto a Bezzecca nel 1866. Nel 1889 il Rocca d'Anfo diventa Vestone e nel 1890, dopo essere stato modificato (da convento a filanda e abitazione civile dei Pialorsi) il fabbricato di piana Mocenigo diventa la prima caserma del novello battaglione.
 
Era lì, sulle porte di casa. L'eventuale confine da difendere era poco lontano: appena sopra Capovalle, Ponte Caffaro e Bagolino. Venivano le reclute dai paesi intorno ed era come assentarsi momentaneamente per un lavoro obbligatorio, un ritrovarsi insieme tra conterranei di Salò, Lumezzane, Collio: era il medesimo dialetto che si parlava, gli stessi paesaggi di sempre che erano sotto gli occhi, la loro stessa terra che camminavano durante le marce o le esercitazioni, le loro case che vedevano nella valle dall'alto delle montagne. Invece nel 1912 vennero mandati a combattere in Libia. Ma venne anche il 1915; la Caserma Chiassi diventò deposito di armi e munizioni, divise e casermaggio per armare e vestire tanti uomini coscritti e richiamati delle classi dal 1871 al 1899 per i battaglioni Vestone, Val Chiese e Monte Suello.
 
Partivano le compagnie dal convento-caserma per andare alla guerra sulle montagne delle Giudicarie, dell'Alto Isonzo, dell'Altipiano, del Pasubio. L'ex convento diventò anche Ospedale da Campo per accogliere i feriti.
 
Ma quanti figli di queste valli non ritornarono più nelle loro case. Ho letto i loro nomi negli Ossari, ho sentito le loro storie dalla voce del vento tra le rocce delle mie montagne: sono gli stessi nomi dei loro figli che dal 1940 al 1945 mi sono stati fratelli in Albania, in Russia, in Germania. Anche di loro tanti non sono tornati. L'ex convento, l'ex filanda, l'ex caserma, l'ex ospedale era diventato prigione militare: era desolato, con le mura che sempre più scrostavano. Poi vennero ancora soldati stranieri e quasi pareva che lo spirito dei frati guardiani li volesse respingere: non parlavano la nostra lingua. Infine rimase vuoto, con le finestre e le porte spalancate sul niente.
 
Ora i pronipoti e i figli di quegli alpini hanno voluto restaurare quell’antico fabbricato hanno chiesto di farlo senza volere alcun compenso, nel ricordo della loro gente e delle sofferte vite: hanno rifatto e pulito i pavimenti usando sempre le stesse pietre, rifatto il tetto con le stesse travi e le stesse tegole (su una era segnato l'anno della primitiva costruzione), usato gli stessi mattoni per riparare le mura; rifatti gli intonaci, riscoperte le decorazioni. Con pazienza e tanta costanza. II tecnico dirigeva e sorvegliava senza disdegnare i lavori più umili; il muratore lavorava da muratore, il decoratore da decoratore; il falegname da falegname; chi impresario metteva il materiale; chi ragioniere teneva i conti. Ogni sabato e ogni domenica dopo aver lavorato altrove per l'intera settimana.
 
Quel giorno che passai da lì c'era anche il cuoco che stava preparando il rancio per chi lavorava. Era stato con me sul fronte russo ed ora, ricordando, mi pareva stupito di tanta abbondanza che ritrovava davanti alla cucina provvisoria allestita in quella che un tempo doveva essere stata la sacrestia: "Sergentmagiur", mi disse nel dialetto che ho caro nel cuore, "vuoi un bicchiere di vino e pane e salame?" E come potevo rifiutare? Ora, dopo tanto lavoro con tanto amore, lavoro che non chiede alcun compenso, restituiranno alla Comunità di Vestone il vecchio fabbricato carico di storia, di povera storia paesana che rispecchia però anche la Storia più grande: ecco, ve lo abbiamo restaurato, sia ora usato come luogo di incontro e di pace nel ricordo dei nostri vecchi che non sono ritornati a baita ma che tra queste mura hanno lasciato un po' del loro spirito.
 
Mario Rigoni Stern

 



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