Domenica, 8 settembre 2024


Banner
ValleSabbiaNews logoBanner


 

lunedì, 11 marzo 2024 Aggiornato alle 15:00Commemorazione

Eccidio di Cesane 2

di Nunzia Vallini
La commemorazione ufficiale nella giornata dedicata alla memoria per i 10 partigiani uccisi a Provaglio, è stata affidata quest'anno a Nunzia Vallini, direttore del Giornale di Brescia. Ecco il suo discorso integrale

Quando mi è giunta la telefonata del sindaco Massimo Mattei – che ringrazio - con la richiesta non solo di partecipare ma addirittura di parlare alla commemorazione dei partigiani trucidati di Cesane, sono stata attraversata da due sentimenti: uno immediato, istintivo.
Certo, ci sono, ci sono venuta un sacco di volte a Provaglio Valsabbia con il mio papà. Ben volentieri ci torno per riavvolgere il filo della memoria collettiva ma anche aprirmi a scorci più familiari, personali.

Poi mi sono chiesta: sì, ma a fare cosa, a dire cosa.
Certo, il mio mestiere è raccontare. Ma qui devo raccontare di 80 anni fa. Io non c’ero. Non sono uno storico. Non sono un’insegnante di storia. E di persone più titolate di me ce ne sono, anche qui: dal prof. Roberto Tagliani a Lucio Pedroni, presidente dell’Anpi provinciale.

L’unica cosa che posso fare, che posso aggiungere, è cercare con voi il senso della narrazione – questo è il mio mestiere, narrare -  narrare oggi, a quasi 80 anni di distanza.
Un senso che poi a pensarci bene è il senso del quotidiano che dirigo, nato come organo del Comitato di liberazione nazionale proprio poche settimane dopo l’eccidio di Cesane.

Brescia è libera, titolava il primo numero del Giornale di Brescia, quando per strada si sparava ancora. Narrare, informare, ovvero “dare forma”. Lo facciamo noi comunicatori di professione, ma lo fate anche voi, tutti informiamo nel momento in cui ci relazioniamo. Tutti diamo forma a qualcosa.
Anche ora, qui. Commemoriamo qualcosa, un fatto, un credo, un sentimento. Ragazzi, anche voi date forma tutte le volte che mettete un like, un “mi piace”.

Diamo forma alla memoria, siamo qui per questo.
Lo sentiamo come un dovere, anno dopo anno. E diamo forma all’omaggio per quei 10 ragazzi trucidati, e doppiamente umiliati: da vivi e anche da morti, abbattuti nel fiore degli anni dalla violenza squadrista nazifascista. Non in combattimento come si voleva far credere, ma in una caccia all’uomo finita con l’esecuzione di massa dopo la resa.

Memoria e omaggio, dunque:  altrimenti non saremmo qua. E invece ci siamo, con determinazione, sfidando la pioggia, sfidando il tempo che passa. E ci siamo con le massime autorità territoriali: i sindaci; con gli eventi delle grandi occasioni: la banda. E poi i ragazzi, i bambini, i semi del presente e del futuro.
“La memoria è uno strumento molto strano – le parole sono di Primo Levi -  uno strumento che può restituire, come il mare, dei brandelli, dei rottami, magari a distanza di anni”.

Ecco, io credo che siamo qui proprio per riprendere in mano quei brandelli restituiti dalla nostra storia, la storia delle nostre valli, e rileggerli con la luce del mondo che cambia, che evolve, che fa passi avanti ma a volte anche passi indietro.
Rileggiamo insieme quella pagina di storia dolorosa dicendo mai più, come si dice in questi casi e senza retorica, quando però nelle nostre case i teleschermi o i titoli di giornale ci rimandano all’attualità di altri scenari, altri combattimenti, altre violenze, altri giovani uccisi nel nome di una libertà invocata, pretesa, rubata, comunque strattonata.  

E allora ai giovani di oggi che ci vedono ricordare gli orrori del passato abbiamo pure il dovere di raccontare qualcosa di più, cercare di spiegare che l’orrore – anche quello che vorremmo sepolto per sempre – può tornare.
E che serve stare attenti, percepire e contrastare sul nascere i segni della prepotenza e della prevaricazione e seminare responsabilità, nella duplice formula personale e collettiva, unico vero ricostituente della democrazia, della giustizia e della pace. Perché l’orrore, quell’orrore, non è nato dal nulla. E ci sono segni prematuri: l’intolleranza, l’arroganza, la superficialità, lo sdoganare parole e atteggiamenti pericolosi, scivolosi.
Ci metto anche il negazionismo, ormai diventato di moda.

Li vedete quei nomi che emergono dal marmo: ricordiamoli: Amilcare Baronchelli, Arnoldo Bellini, Angelo Bruno Cocca, Luigi Cocca, Teodoro Capponi, Alfredo Poli, Pierre Lanoy, Gaetano Resa, Ferruccio Vignoli e Domenico Signori.
Sì, è vero che il tempo è nemico della memoria, capiamo perché più ci si allontana da questi fatti più diventa importante ricordarli.
Ecco, facciamola, un po’ di memoria: torniamo al 5 marzo di 79 anni fa.

Qui tutt’attorno era fermento di giovani resistenti e giovanissimi renitenti alla leva obbligatoria del regime fascista.
Erano i mesi dei rastrellamenti sempre più frequenti e spietati, delle fughe sui monti, delle comunicazioni affidate alle staffette, della paura, dei tradimenti, della clandestinità, della voglia di libertà dall’oppressore che seminava terrore anche tra i civili.

I giovani della 7° Brigata Matteotti si spostano di continuo: dal monte Tesio al Besume passando dall’Ere e dal Colle di Sant’Eusebio. Per sfuggire all’arresto a fine febbraio se ne radunano qui sopra poco meno di una ventina ma il 3 marzo giunge la notizia di un nuovo, imminente rastrellamento.
Ed è all’alba del giorno dopo, il 4, che una delle sentinelle si imbatte nel 40esimo Battaglione Mobile Camicie Nere: gli sparano alle gambe e viene catturato.

La raffica di mitra rende evidente a tutti che il nemico – sicuramente bene informato da qualcuno - si è già avvicinato troppo: il gruppo si divide in due. Uno va verso la cima del Besume, l’altro affronta lo squadrone nazifascista in un combattimento impari per numero di uomini e soprattutto arsenale.
Ai partigiani, rimasti senza munizioni, non resta che la resa e la prospettiva della prigione.

Invece il peggio doveva ancora venire.
Da subito muore sul posto Domenico Signori, che si lancia nel precipizio per non essere catturato. Gli altri invece vengono immobilizzati con i polsi legati dietro la schiena, dileggiati, malmenati e trascinati con forza fino a Barghe.
Qui fatti salire su un autocarro per essere portati a Casto e sottoposti ad un processo burla con per sentenza la condanna a morte.

E non è finita
: vengono poi portati ad Idro, sede del comando della compagnia, nuovi interrogatori, nuove violenze. E poi riportati a Barghe, ormai sfiniti, scalzi, martoriati, sempre con le mani legate dietro la schiena, costretti ad una via crucis dell’orrore.
Le camicie nere li volevano far arrivare a spintoni fino a Livrio, dove erano stati catturati. Volevano simulare la loro morte in combattimento: per loro sarebbe stato più dignitoso, avrebbero salvato la faccia.

Ma in quelle condizioni era umanamente impossibile per i prigionieri proseguire.
Proprio qui, la caduta a terra, per sfinimento. E qui la loro esecuzione sommaria, a bruciapelo. Violata anche la morte: fu impedita la ricomposizione dei loro corpi, fu ordinata la sepoltura in una fossa comune e venne proibita anche la celebrazione del loro funerale. Mancavano meno di 50 giorni alla Liberazione.

Ecco, la guerra si sa è una gran brutta cosa. Di qualunque colore sia, in qualunque luogo venga combattuta. Ma tanto orrore e bestialità di fronte a ragazzi inermi, disarmati e arresi, lo è ancora di più. Anche 80 anni dopo.
Ecco allora che si fa strada l’onere dell’omaggio al sacrificio di questi ragazzi – il più vecchio aveva solo 25 anni – e l’onere della memoria dei valori che li avevano portati fin qui: la libertà, la democrazia, il secco no all’oppressione, alle prevaricazioni, ai soprusi. Un no pagato con il prezzo più alto, quello della vita.
    
Ma cerchiamo di andare oltre l’omaggio – doveroso - a questi martiri.
Quest’esercizio di memoria parte dalla storia ma guarda al futuro attraversando il presente.
Quale narrazione vogliamo dare, quale informazione.
A cos’altro vogliamo, dobbiamo “dare forma”: non è un esercizio fine a se stesso, ma risponde alla necessità di attrezzarci ad affrontare le insidie pericolose e scivolose del presente.

Perché il nostro oggi vede il moltiplicarsi di ideologie estremiste e divisioni politiche che sappiamo bene possono portare alla violenza e spesso anche alla repressione delle minoranze. Con gravi violazioni dei diritti umani e dei principi democratici, oggi come allora. Succede lontano ma anche vicino a noi. Non ci è concesso di abbassare la guardia.

Oggi come allora la violenza viene accompagnata da propaganda e manipolazione dell’informazione per influenzare le opinioni pubbliche e legittimare governi autoritari o azioni violente di gruppi armati. Oggi come allora la popolazione civile continua ad essere la più colpita, costretta a vivere in condizioni di estrema precarietà e a subire violenze inaudite.

Oggi possiamo considerarci dei privilegiati
, grazie al prezzo pagato da chi ci ha preceduto. Ma la democrazia non è un bene ereditario e perenne, va difesa e alimentata nel quotidiano. E ci chiama tutti in causa, nessuno escluso. Val la pena citare ancora Primo Levi quando avverte: tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo.

E allora usiamola bene la parola. Parola responsabile, scelta, meditata. Parola che costruisce, che si oppone alla disgregazione, alla divisione.
Guardate, tengo a sottolinearlo: quel “dare forma”, anche solo con le parole, è responsabilità di tutti, di ciascuno di noi, anche nel relazionarsi in casa, tra amici, al lavoro. È nella parola e nei gesti semplici che si annida il seme delle intolleranze, delle divisioni, delle prevaricazioni.

E concludo: pur con le differenze storiche e di contesto, gli eccidi dei partigiani durante la Seconda guerra mondiale come quello di Cesane e le guerre contemporanee, pur diversissime tra loro, condividono molti elementi comuni e non solo per la violenza esercitata e i conflitti territoriali: hanno in comune anche l’ideologia estremista, l’uso della propaganda, la sofferenza della popolazione civile.   

Su questo terreno, ieri e l’oggi si incontrano e suonano come campanelli d’allarme
. Anche qui, vicino a noi.
Ecco allora che l’omaggio ai martiri di ieri e la memoria di quello che è stato diventano ingredienti doverosi e preziosi, anche se non sufficienti, per quell’informare nel senso del “dare forma” alla cultura della tolleranza, del confronto, della rappresentanza e della pace. In una parola sola: democrazia. Ovvero il senso vero (quello con la S maiuscola) dello stare insieme.

Grazie
Nunzia Vallini



 

Leggi anche...