Domenica, 8 settembre 2024


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martedì, 9 luglio 2024 Aggiornato alle 08:00Blog - Genitori e figli

Molestare, quando la cultura della violenza imperversa

di Giuseppe Maiolo

L’abuso psicologico produce danni pari a quello fisico e si trascura il fatto che anche le offese verbali possono lasciare tagli profondi e segni a volte indelebili

 

Molestare è un verbo di violenza perché narra le azioni che la anticipano o la includono. Indigna però scoprire che le molestie sono tali solo se la reazione della vittima non è ritardata. Se si oppone al molestatore dopo 20 secondi, la molestia non c’è e nemmeno il reato. Pare follia ma accade oggi. Quasi a dire che è il tempo a definire l’offesa se non hai una prova tangibile della molestia e meno ancora puoi vedere la ferita interna. Se il corpo non ti mostra la ferita, il danno non esiste.

 

Senza contare che si fatica a capire il costrutto del tempo come discrimine per definire una violenza. Forse si dimentica che l’abuso psicologico produce danni pari a quello fisico e si trascura il fatto che anche le offese verbali possono lasciare tagli profondi e segni a volte indelebili. La psico-traumatologia ha ribadito in più occasioni che la violenza è già tutta dentro le offese e le molestie, soprattutto quelle a sfondo sessuale, che già feriscono in profondità la vittima e la colpiscono nella sua l’intimità perché toccano la sfera personale del corpo che è confine per definire le relazioni.

 

Lo confermano le risposte emozionali che le donne offese manifestano quasi immediatamente, dove per primo c’è il disorientamento e poi in successione la vergogna e la colpa insieme a un’umiliazione profonda. Questo paralizza o inibisce una possibile reazione e la sensazione della vittima è quella di sentirsi disarmata, senza strumenti di difesa. 

 

Non si tratta di consenso né di accettazione della prepotenza dei gesti: il ritardo con cui la vittima si oppone è dato dallo sconvolgimento che domina e dall’idea diffusa che qualcosa di negativo la donna deve aver fatto per meritarsi quello che sta subendo. Significa che per prima la vittima pensa di “essersela cercata” e di essere causa del suo mal.

 

Un tempo accadeva anche nelle “molestie di strada” ovvero in quei comportamenti maschili fatti di fischi, battute o gesti allusivi alla sessualità che sembravano esprimere apprezzamento per il genere femminile, mentre erano azioni offensive camuffate, pubblicamente imbarazzanti e volgari che cfacevano vergognare le vittime. Molestie che dicevano appartenere a un innocuo “pappagallismo” maschile e goliardico mentre erano gesti indecorosi e offensivi di uomini che così facendo esprimevano potere e controllo maschile.

 

Anche se si sono ridotte queste molestie, ora prevale il “catcalling” termine inglese che si riferisce a chi molesta con commenti volgari e complimenti apparentemente innocenti ma imbarazzanti oppure con  insulti verbali in presenza e online, senza controllo e senza limiti e ancora eredità pesante di una cultura patriarcale e sessista, dura a scomparire.

 

Allora serve una riflessione profonda in particolare dei maschi che possa renderli consapevoli della violenza che sta nei gesti offensivi anche “minimi” e non nel tempo di esposizione o nella reattività della vittima. Ma serve soprattutto una riflessione collettiva per capire quanto abbiamo ancora da fare per modificare la cultura della violenza e chiederci tutti come si educano i maschi e quali modelli di rifermento stiamo ancora offrendo.

Giuseppe Maiolo

psicoanalista

Università di Trento

Docente di psicologia delle età della vita


 

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