Giorno della memoria: ottant’anni dopo

Non ci poteva essere una celebrazione migliore del Giorno della memoria nell’ottantesimo anno dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, il 27 gennaio 1945 da parte delle prime truppe dell’Armata rossa. La sospensione delle operazioni militari a Gaza permette di tirare un sospiro di sollievo dopo quindici mesi di orrori. Ma al fondo rimane una certa inquietudine. L’accordo fra Israele e Hamas prevede nei prossimi 42 giorni un cessate il fuoco in Palestina, il rilascio di 33 ostaggi israeliani in cambio di un migliaio di prigionieri palestinesi e l’inizio del ritiro delle truppe israeliane da alcuni settori della Striscia. Questa è la prima fase dell’accordo, raggiunto a Doha con la mediazione di Qatar, Egitto, Turchia e Stati Uniti ed entrato in vigore domenica 19 gennaio. Nella seconda fase, ancora da definire pienamente, saranno liberati i restanti ostaggi in cambio di altri prigionieri palestinesi e completato il ritiro delle forze israeliane; nella terza e ultima fase sono previste la consegna dei corpi degli ostaggi defunti e la organizzazione di un piano di ricostruzione a Gaza e in Cisgiordania. Questo è il momento del ricordo e dei festeggiamenti per la sospensione delle operazioni militari, ma è anche il momento di riflettere sulla genesi dell’accordo e sulle sue possibilità di tenuta. Sia perché in casa israeliana non sono tutti contenti dell’esito delle trattative, sia perché i tempi di attuazione sono molto dilatati e nelle sei settimane previste per la prima fase può succedere di tutto, sia ancora perché ad oggi l’unico risultato concreto è stato la restituzione delle prime tre donne in ostaggio, oltre al via libera agli aiuti alla popolazione di Gaza. Le posizioni assunte in Israele la dicono lunga sulla effettiva stabilità dell’accordo, che per per ora presenta vari aspetti di precarietà. Il premier Netanyahu, già in precedenza si era riservato il diritto di riprendere la guerra in caso di violazioni da parte di Hamas; tre ministri della destra estrema si sono dimessi per protesta contro l’accettazione della tregua, indebolendo così la maggioranza; l’Iran ha presentato l’accordo come una ‘vittoria di Hamas’, aspetto inaccettabile per Gerusalemme. Quello che probabilmente costituisce un punto di forza a sostegno del patto è il cambio della guardia alla Casa Bianca, col ritorno di Trump, deciso sostenitore della fine della guerra, ma concretamente la posizione del nuovo Presidente andrà vagliata nel prossimo futuro. Al sollievo per la fine dei bombardamenti su Gaza, spada di Damocle sulla popolazione rimasta, già stremata dalla scarsità di cibo, di acqua e di medicinali ed esposta al rischio forte di malattie, il pensiero dei palestinesi continuerà a tornare ai 46 mila morti finora conteggiati (ma che la rivista Lancet ha alzato del 40% a 65-70 mila, di cui il 60% costituito da donne, anziani e bambini) e alle tragiche condizioni di vita subite in quindici mesi di guerra. Il capo del coordinamento degli Affari umanitari dell’Onu, Andrea De Domenico, uscito da Gaza un anno fa, ha sintetizzato così l’effetto collaterale proprio delle condizioni di vita nella più popolosa città della Striscia (circa 600 mila abitanti): “non so come le giovani generazioni porteranno la ferita di questo orrore nella loro vita”. Non nascondiamocelo: è una ferita che si chiama ‘odio’ e se lo sommiamo a quello degli ebrei che si trovano sotto la costante minaccia alla popolazione dei razzi e dei droni lanciati da Hamas (e da Hezbollah e dall’Iran) ne ricaviamo un innesco altamente pericoloso. Il rischio conseguente è che le contestazioni allo Stato di Israele - se l’accordo non funzionerà - finiscano per identificarsi con l’antisemitismo latente, un pericolo tenuto sempre in debita considerazione, fra gli altri, dalla senatrice Liliana Segre. Ma ora limitiamoci, concentrati sulla speranza, a celebrare, nel Giorno della Memoria (istituito il 1° novembre 2005 con la risoluzione 60/7 dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nella 42ma riunione plenaria) il ricordo del genocidio subito dal popolo ebraico, al fine di evitare che si ripeta, che si ripetano tutti genocidi. Come contributo il Comune di Paitone proietterà domenica 26 gennaio, alle 20.45, nella Sala polivalente della cultura, il film Jojo Rabbit, del cinquantenne regista neozelandese Taika David Cohen, professionalmente noto come Taika Waititi (Wellington 1975). È un film sui generis, da un’idea geniale che, bisogna dirlo, poteva scaturire solo dallo spirito umoristico, ben noto in letteratura, di un ebreo. Non vi diciamo altro per non togliere a chi non l’ha visto, il piacere della scoperta. Ma è da vedere, per divertirsi ma anche e soprattutto per pensare, in una giornata particolare come questa. Ad ottant’anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. Non mancate. Franco TarsiConsigliere alla cultura di Paitone

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