Le parole. Quelle dei genitori e dell’educazione
Un’intervista a Mariella Bombardieri in vista del suo intervento di questo venerdì al Festival della parola di Villanuova sul Clisi
Noi siamo parole, e non solo perché parliamo ma perché abbiamo aggiunto ai gesti e al corpo e ai movimenti, il linguaggio come specificità umana della comunicazione. Le parole allora sono “ponti” con cui ci colleghiamo agli altri, o come si dice oggi, ci connettiamo. Se poi viviamo la condizione di chi educa e ha il compito di far emergere più che “riempire”, abbiamo la necessità primaria di interrogarci su quello che diciamo, ma anche su come lo facciamo. Perché la genitorialità sta all’interno di un processo circolare che ci coinvolge totalmente, a partire dal fatto che per parlare, prima di tutto è necessario ascoltare. La comunicazione educativa è funzionale al processo di crescita e di individuazione solo se è partecipazione attiva, presenza continua, relazione affettiva e empatica.
Mariella Bombardieri, pedagogista e formatrice, affronterà il tema e ci mostrerà quale funzione hanno le parole della genitorialità. Lo farà al Festival della parola di Villanuova sul Clisi, venerdì 22 novembre alle ore 18,00 nella Sala consiliare. A introdurre sarà la sindaca Caterina Dusi. Le abbiamo chiesto un’anticipazione.
Cosa significa essere genitori al tempo della comunicazione digitale?
«Una bella sfida. Con la realtà, con ciò che accade non solo in famiglia ma a scuola, nella comunità. Di fronte alla complessità serve che i genitori osservino, si interroghino, facciano rete con altri genitori. Perché servono più sguardi per educare. Se pensiamo al tema del digitale quanto è importante che i genitori si informino, si formino, siano autoconsapevoli di come loro gestiscono i dispositivi digitali, si chiedano quali sono i reali bisogni dei figli a cui è importante dare risposta. Elaborino progetti educativi condivisi con la scuola, con esperti, con associazioni di genitori. Interessante in proposito l’esperienza dei patti digitali (www.pattidigitali.it)».
Quali sono le parole che servono di più per una genitorialità autorevole?
«Per comunicare in modo efficace è d’aiuto conoscersi come genitori e conoscere le caratteristiche dei propri figli. L’autorevolezza passa da parole come ascolto, valorizzazione, comprensione emotiva ma anche un lasciare andare quelle aspettative che riguardano il genitore e non il figlio. Autorevole è anche colui che ha lavorato e lavora su se stesso, apprende nuove strategie perché con i figli difficilmente funzionano ricette preconfezionate. Autorevole è la guida che mette anche delle regole, che sono confini, argini di un fiume che scorre; si mettono le regole sin da quando i figli sono piccoli adattandole via via alla loro crescita. La regola richiede assertività, capacità di reggere anche i conflitti, le trasgressioni che non sono facili da gestire ma che servono ai figli per costruire la propria identità, per trovare la loro strada ma anche per essere fermati quando non sono in grado di scegliere».
Quanto conta il verbale nel processo educativo?
«Le frasi di chi ci ha educato restano nella memoria in positivo e negativo, anche quando si è adulti e riemergono quanto si diventa genitori. Chi educa deve essere esperto di comunicazione. Ci sono parole che valorizzano, che spiegano, che richiamano e parole che chiudono in un angolo bambini ed adolescenti senza possibilità di risposta. Parole ed etichette che identificano il figlio o l’allievo con le sue mancanze e sappiamo quanto questo può creare sofferenza, fatica e blocco nella crescita ma anche parole che richiamano alla normali responsabilità dei figli. E’ utile rimandare ciò che non va, ma si deve essere consapevoli di quali parole si utilizzano e l’effetto che fanno sull’altro. Lo aiutano a migliorare, a capire in concreto ciò che non va o colpiscono tutta la sua persona, facendogli interiorizzare un’immagine negativa di sé?»
E quanto contano anche le parole non dette, i silenzi, gli sguardi, cioè la comunicazione non verbale?
«Il non detto non permette di nominare paure, delusioni, crisi; ciò che non è nominato però fatica ad essere rielaborato. C’è un grande timore oggi nei genitori di parlare di dolore, di fatica, ma molte esperienze ci dicono che i figli quando qualcosa non va, colgono delle cose che se non comprese creano in loro ansia, senso di colpa. Certo serve considerare cosa si deve dire e l’età dei figli, le loro caratteristiche, per rendere il messaggio il più efficace e centrato possibile. Il non verbale è anche una grande risorsa che nutre, sostiene le parole; molti genitori raccontano di quanto sia bello avere momenti con i figli in cui ci si abbraccia, si gioca, si disegna, si fa qualcosa insieme anche senza lunghi discorsi; è il linguaggio delle cose concrete che crea legami e resta nella memoria».
Giuseppe Maiolo
Università di Trento