L’aocàt de Borlóch
Il nonno accennava spesso nei suoi racconti a l’aocàt Barbèta.
Non che avesse mai avuto bisogno della sua assistenza; anzi, uno dei suoi proverbi preferiti era quello che dopo molto tempo anch’io avrei apprezzato e sperimentato: l’è mèi on sorèch en boca a on gàt che on cristià en mà de on aocàt.
Tuttavia, quando ne parlava, mostrava di conoscere bene lui, la sua famiglia e la sua parentela.
Abitava a Borgolungo ed aveva casa là dove si apre un modesto slargo che qualcuno dice piazza. Aveva fama, oltre che di professionista a bù mercàt, di essere un abile mediatore nelle controversie tra contadini ed anche un prezioso consigliere in caso di compravendite, eredità, questioni di confini ed altre del genere. Barbèta non era il suo vero cognome, era solo il soprannome, per via di un pizzetto brizzolato ed appuntito che gli dava un aspetto simpatico. Il nonno talvolta, fingendo di sbagliarsi, lo chiamava l’aocàt Cavrèta.
Era semplice nei modi e assai franco nel rapporto con i clienti: il fatto è che non nascondeva le sue umili origini e spesso parlava in dialetto, cosa che lo metteva in grande confidenza con i suoi clienti di basso rango.
El pàrla come nóter – dicevano sorpresi e compiaciuti quelli che ricorrevano a lui.
Il nonno ne parlava come di un mezzo parente non solo perché la sò cüzina Ursulì la ghìa fàt la serva 'n casa sò, ma anche perché lui da ragazzo aveva fatto el famèi insieme a un suo zio… insomma, storie di famiglia e familiarità.
Spesso ne ripeteva la genealogia e ai bambini piaceva ascoltare tutti quei nomi di persone sconosciute; talvolta riuscivano ad anticipare, nel racconto, la citazione di personaggi che tante volte avevano sentito nominare.
Lù l'è fiöl sùl. La sò màma l’è chéla Marièta Bièma che stàa zó en del Büs -. Così cominciava di solito il nonno. E ci teneva a precisare che non si trattava dei Bièm Polènta, ma dei Bièm Màgher, tra i quali alcuni fratelli erano andati ad abitare a Gavardo àle Fornàs e il cui capofamiglia aveva sposato la sorella de chèla Faüstina che era andata a servizio dal siòr Maté a Quàdega, insieme a una cognata di quella zia Catìna che faceva la portinaia a Milano e che quando tornava a Goglione in visita ai suoi, parlava milanese perché diceva di non ricordare più il nostro dialetto. Quella che, sottolineava sempre il nonno facendo ridere tutti, invece di dire “non lo so” esclamava “so nò mi”. E poi l'altra sorella ancora... e la nuora… el cüzì… fino all’immancabile… zio prét.
A quel punto si perdeva il conto e il filo delle parentele.
Questo preambolo solo per presentare in scena el zio Stéfen, persona riservata e seria sin da giovane ma che aveva sempre ascoltato affascinato quella storia dell’avvocato.
Sapeva che l’aocàt era stato un bambino molto bravo a scuola, tanto che il prete l'aveva consigliato di entrare in Seminario, pronosticandogli una buona riuscita negli studi e, forse, una brillante carriera ecclesiastica.
La Marièta Bièma già si vedeva nei panni de la màma de on arsiprét, ma quasi alla vigilia de ciapà mèssa il ragazzo aveva avuto una crisi di coscienza, aveva rinunciato al sacerdozio e aveva messo a profitto i suoi studi per fare i ezàm de aocàt. E così la mamma, a Guiù de Sùra veniva chiamata Marièta Aocàda.
Stéfen lo invidiava da morire.
Considerava una fortuna la sorte toccata al Barbèta il quale, pur provenendo da una famiglia povera come la sua, era riuscito ad avere un lavoro che gli consentiva di stare tutto il giorno a l’ombréa con la camiza bianca e le scarpe löstre.
L'aveva visto qualche volta arrivare al suo studio in piazza, uno spazio angusto ma di prestigio essendo di fronte al Municipio, fresco d'estate e caldo d'inverno, con una cartella nera sempre piena di carte.
Stéfen non aveva voluto fare il contadino e già questo fatto aveva provocato il risentimento della famiglia dove si diceva spesso: - L'è mia giöst de có-.
Un suo cugino gli aveva trovato un posto di manovale presso una ditta di Brescia che raggiungeva ogni giorno in bicicletta portandosi il fagottello del pranzo.
Al passaggio a livello ai Treponti talvolta trovava le sbarre bianche e rosse abbassate; allora s'incantava a veder passare la ferrovia e invidiava la gente che vedeva oltre i finestrini. Quanto gli sarebbe piaciuto fare quel viaggio in treno!
Poco alla volta maturò la decisione di raggiungere in ferrovia il posto di lavoro. Avrebbe potuto farlo, per cominciare, solo al lunedì quando i vestiti della settimana erano ancora in ordine e le scarpe non ancora inzaccherate. Quando, insomma anche il suo umore era più sereno dopo una giornata di riposo.
Così al lunedì aveva preso l'abitudine di andare in bicicletta fino alla stassiù a Goiù de Sùra e da lì raggiungere Brescia con il tram. - Spènder i franc del biglièt… a fà, pò!?! - si scandalizzava il parentado. Ma lui, al lunedì, si sentiva al settimo ciclo; el sa spipiulàa tòt quando riusciva a scambiare qualche battuta, magari in italiano, col personale del tramway e con i viaggiatori, occasionali o abituali .
Poi alla sera, all'osteria del Cìrcol a Borlóch, si gonfiava come un tacchino nel dire: 'Encö söl treno sa parlàa del goèrno… i dizìa che…ah po' mé go dìt la mé…
Si era comprato una cartella nera (l'è mat matènt - sospiravano i parenti) in tutto simile a quella che aveva visto in mano all'avvocato e vi sistemava delle fette di polenta avvolte 'n den manti, con le fette di salame o di stracchino o qualche volta el rèng (il pesce), disposte in modo che la cartella non presentasse rigonfiamenti e sembrasse davvero piena di documenti.
Una parola oggi, mezza domani, un sorriso piazzato al momento giusto, qualche esibizione di modestia che intercalava con gran senso dell'opportunità quando si trattava di uscire da situazioni che potevano diventare imbarazzanti, tutto ciò aveva creato intorno a lui, sul treno, un clima di simpatia e anche di stima
Così, molto cautamente, aveva lasciato credere di essere sul punto di completare gli studi di avvocato e di andare talvolta a fare pratica in uno studio legale di Brescia, il lunedì appunto, quando era libero dai suoi impegni scolastici.
Solitamente al lunedì viaggiava una contadina che veniva dalla Valsabbia e che andava al mercato con un grande caagnöl coperto da un asciugamano cosicché non si poteva capire se andava a vendere o a comprare. Stava solitamente zitta; sedeva impettita col cesto sulle ginocchia e anche quando Stéfen capitava accanto a lei e èl tacàa a ciacolà, lei pareva non ascoltare, assorta nei suoi pensieri. Ma evidentemente qualcosa ascoltava, perché una mattina d'inverno si alzò dal suo posto e venne a sederglisi accanto.
-Siòr aocàt- esordì la donna. Stéfen si schermì con la solita modestia. La donna gli sottopose una complicata questione riguardante un cortile con diversi accessi e diritti di passaggio che condivideva con altre famiglie.
Il giovanotto assunse l'atteggiamento che presumeva dovesse assumere un avvocato e forse fu l'atteggiamento giusto, perché la donna aggiungeva particolari sempre più dettagliati su antiche servitù, su accordi sanciti e disattesi, su concordati, transazioni e cause già intentate eppure mai risolutive.
Stéfen non ebbe la faccia tosta di dare dei consigli, ma le promise di chiedere il parere dell'avvocato presso cui lavorava. In una settimana avrebbe pur trovato una soluzione!
Nei pressi della stazione si alzò e salutò in fretta la donna sperando di levarsela di torno e, non appena il treno si fermò, spiccò un balzo ostentando la disinvoltura del viaggiatore abituale. Forse fu tradito dai gradini ghiacciati e forse ci mise la coda il diavolo che insegna a fare le pentole ma non i coperchi.
Il fatto è che cadde lungo e disteso sullo sterrato del marciapiede e, nel tentativo di aggrapparsi, gli sfuggì di mano la borsa che cadendo si aprì, sparpagliando al suolo il contenuto.
Prima ancora di toccarsi le botte e i graffi, Stéfen si affannò a raccattare il suo tovagliolo, sperando che nessuno avesse notato la sua disavventura.
Ma dallo sportello rimasto aperto stava scendendo la contadina di prima che, indicando una gialla fetta di polenta proprio vicino al binario, gli disse con voce chiara e forte: -Siòr Aocàtt, el vàrde ch’el ga perdìt 'na pratica-.
Adattamento da: Giuseppina Peci, Nedàl al foch… Pasqua al zöch, GAM Editrice, Rudiano 1998.